Molti autori nella storia del cinema hanno raccontato storie di emarginati, reietti. Uomini, donne, ragazzi, creature ai margini della società. Lo hanno fatto mettendo al centro della propria narrazione la vendetta, il dolore, ma anche l’amore. Ci viene subito da spostare le lancette dell’orologio un anno dietro, proprio a questi giorni, pensando magari allo splendido Bones and All di Luca Guadagnino, in concorso a Venezia nella scorsa edizione. Questa volta è il turno di Luc Besson, regista di grande culto, grazie anche, e soprattutto a Léon, che all’80° edizione del Festival di Venezia concorre per il Leone d’Oro con Dogman.
Ritorno attesissimo insomma, e anche auspicata rinascita, dopo pellicole non sempre all’altezza delle aspettative. Per farlo, per rinascere dalle proprie ceneri, Luc Besson si affida a Caleb Landry Jones, centro nevralgico di Dogman, e già vincitore a Cannes nel 2021 del Prix d’interprétation masculine. È lui il reietto, è lui il catalizzatore degli eventi e delle emozioni, con una performance di indiscusso ed eccezionale valore artistico, che – al netto di un programma ancora agli albori – sembra avere tutte le carte in regola per conquistare un posto nel prestigioso palmarès. Besson è tornato, e ha già conquistato Venezia.
Dogman: la storia di un reietto
Il fulcro intorno al quale ruota la narrazione di Dogman è Doug, diminutivo di Douglas, un uomo emarginato, costretto fin da bambino a vivere una vita atroce, soggiogato alle violenze del padre e a quelle del fratello. Nel presente si trova all’interno di un centro di detenzione, arrestato dalla polizia nella notte, e tutto ciò che vediamo sullo schermo sono dei lunghi flashback, grazie ai quali ripercorriamo quella tragica infanzia, raccontata dallo stesso Doug a Evelyn, una psichiatra con cui stringerà un legame di reciproca fiducia, ma più in generale gran parte della sua vita fino a quel momento.
Costretto dal padre a vivere per lunghissimo tempo insieme ai cani che quest’ultimo possedeva e maltrattava con feroce brutalità, e che invece lui amava, e colpito con un colpo di fucile dal medesimo, dritto alla schiena, Doug perde permanentemente e quasi totalmente l’uso delle gambe. Da quel momento il dolore non lo abbandonerà mai, costretto ad essere una sorta di freak, costantemente emarginato, si costruirà una nuova vita circondato dai propri cani. D’altronde lo dice la frase con cui il film si apre: “Ovunque ci sia un infelice, Dio invia un cane”.
Doug cercherà di trovare la propria dimensione all’interno di una società che per sua stessa natura tende immancabilmente e inesorabilmente a discriminare e marginalizzare figure come la sua. Dovrà vagare alla ricerca della propria identità, alla ricerca di una felicità forse mai veramente raggiunta, che tuttavia troverà truccandosi e indossando abiti femminili, partecipando agli spettacoli di un locale di drag queen. Diventerà un vigilante, mettendosi contro una gang di malviventi, e trovandosi a doverne fronteggiare la vendetta. Poi un moderno Robin Hood, sempre sul filo dell’illegalità, e sempre circondato dall’amore dei propri cani.
Un nuovo Joker: la genesi del personaggio

Nel 2019, rimanendo sempre ben ancorati al Festival di Venezia, successe qualcosa di assolutamente inaspettato. Joker vinse il Leone d’Oro, diventando il primo cinecomic a ottenere il premio più importante in un festival cinematografico. Da quel momento iniziò la corsa all’Oscar di Joaquin Phoenix, e dal momento che i parallelismi tra Dogman e il film di Todd Phillips sono piuttosto evidenti, ci auguriamo che lo stesso destino possa capitare a Caleb Landry Jones.
D’altronde, se c’è una cosa in cui il film di Luc Besson è pressoché perfetto, è proprio la genesi del suo protagonista, così com’era stato per Joker. L’incipit è incredibilmente interessante. Un susseguirsi di momenti di altissimo cinema, capace di catalizzare l’attenzione dello spettatore sulla figura di Doug, presentandolo come un personaggio fortemente controverso, ma innegabilmente affascinante.
Allo stesso modo, Besson racconta l’infanzia di Doug, il dolore che influenzerà la sua vita in maniera impeccabile, facendo sì che il pubblico possa empatizzare con lui, partecipare al suo stato emotivo e arrivare a comprendere le sue azioni, nonostante quest’ultime siano eticamente discutibili. Lo stesso attore compie un lavoro eccezionale nella caratterizzazione del personaggio. Inquietante e inquietato, amabile e perverso, si rivela allo spettatore minuto dopo minuto, in un crescendo di tensione che instilla un inevitabile dubbio nel suddetto: Doug è un antieroe?
Dogman: il viaggio del (falso) antieroe

Abbiamo parlato dei diversi approcci nel raccontare l’emarginazione, ma Besson con Dogman riesce a fonderli in un film fortemente stratificato, in cui dolore, vendetta e amore convivono all’interno della stessa narrazione, nonché dello stesso personaggio. Il dolore per un’infanzia e una vita contraddistinta da maltrattamenti, la vendetta contro una società inclemente, l’amore incondizionato nei confronti dei cani, che considera come i propri figli. Il dubbio si insinua nella mente, perché noi, come spettatori, non possiamo fare a meno di pensare che Doug abbia tutte le ragioni possibili per compiere quelle azioni, sia in un certo senso giustificato.
Besson inoltre gestisce magistralmente l’arco narrativo del suo protagonista, facendo ondivagare il pubblico tra una e l’altra opinione. Si ha la sensazione che Doug possa diventare un antieroe da un momento all’altro. Una scena in particolare rappresenta il climax del film, quella in cui tutti, all’unisono, abbiamo pensato che il film virasse verso una componente ancor più violenta. E invece sostanzialmente non succede mai, Doug non diventa mai realmente un antieroe, o almeno non dà mai la sensazione di esserlo.
Al contrario del Joker di Joaquin Phoenix, insomma. Ma è bellissimo così, perché poi, quando arriviamo al finale, le strade si ricongiungono, i personaggi si sovrappongono, e se Arthur Fleck danzava su un’auto davanti alla folla trionfante, Doug giace a terra, sopra l’ombra di un croce, circondato dai suoi amati cani.
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