Comandante è il film d’apertura dell’ottantesima edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Diretto da Edoardo De Angelis, 45 anni compiuti proprio oggi, il lungometraggio vede come protagonista Pierfrancesco Favino, che solo tre 3 anni fa, proprio a Venezia, ha vinto la Coppa Volpi per la miglior interpretazione maschile, per Padrenostro.
Partiamo dal presupposto che realizzare un film bellico ambientato durante la Seconda guerra mondiale nel 2023, dopo decine, centinaia di proposte cinematografiche che hanno raccontato in ogni modo possibile quel periodo atroce, è una sfida. Lo è perché catalizzare l’attenzione di un pubblico sempre più esigente e difficile da intercettare diventa ulteriormente complicato se la proposta e la sua promozione non sono sufficientemente avvincenti.
Quindi, questo sontuoso Comandante, piazzato in apertura di Festival, riesce nella difficile missione di saper trovare una sua personale chiave per ammaliare e non annoiare? Sì, in buona parte ci riesce.
Comandante: La storia

Autunno 1940. Salvatore Todaro, Comandante del sommergibile Cappellini della Regia Marina, sta navigando l’Atlantico con i suoi sommergibilisti. Un gruppo estremamente eterogeneo di uomini, provenienti da tutta Italia, uniti dalla missione per quanto divisi da fede, abitudini, convinzioni personali. Todaro affonda una minacciosa nave straniera, un mercantile che viaggia a luci spente, il Kabalo, che si scoprirà essere di nazionalità belga. Dopo una breve battaglia, il Kabalo viene affondato a colpi di cannone.
Un nutrito gruppo di naufraghi, ventisei, per la precisione, è ad un passo dalla morte in mare, e Todaro fa prevalere la sua umanità e il rispetto per le leggi del mare, prendendo la decisione di salvarli, imbarcandoli a bordo. L’obiettivo è quello di sbarcarli nel porto sicuro più vicino, ma per farlo sarà necessario navigare in emersione per tre giorni, esponendosi alle forza nemiche, e rendere vivibile la convivenza tra i combattenti italiani e quelli belgi.
La chiave introspettiva e poetica per raccontare la storia

Il film sa trovare una sua valida ed originale chiave per raccontare una storia inevitabilmente rude e testosteronica. E’ quella dell’introspezione e della dimensione poetica che il racconto filmico mette in scena. A partire dall’apertura del film, una probabile citazione ad Otto e Mezzo di Fellini: se là un uomo in crisi e sognatore si ritrovava sospeso per aria, e noi osservavamo le sue gambe trainate a terra da una corda che le tirava, qua, in modo ancor più soffuso, sono le gambe di un soldato a venir riprese mentre planano verso il mare. E’ un soldato morto, scopriremo più avanti nel film. Ma aprire così un racconto di morte ed umanità è senza dubbio accattivante.
Così come lo sono la prima manciata di scena, quelle precedenti alla partenza del sommergibile, le uniche nelle quali compaiono anche le due donne del film, interpretate da Silvia D’Amico, che interpreta Rina, la moglie di Todaro, e da Cecilia Bertozzi, Anna. Malinconiche, quasi eteree, queste giovani donne riflettono in voice over sul disastro umano che è la guerra, sulla disumanizzazione incontro a cui stanno andando quegli uomini.
Sono ruoli marginali, certo, ma rispetto alla maggior parte degli importanti film bellici degli ultimi anni, si pensi a Dunkirk di Christopher Nolan o a 1917 di Sam Mendes, almeno hanno una risonanza a lungo termine nella storia (basti pensare che i pensieri non espressi a voce di Todaro li apprendiamo dal voice over delle sue lettere scritte alla moglie).
Una messinscena elegante

La messinscena presenta poi alcune pennellate alquanto suggestive ed eleganti: ci vengono mostrate delle meduse, riprese dal fondale del mare, che ondeggiano quiete prima di venire divorate dal fuoco provocato dal sommergibile. Seguiamo in voice over il flusso di coscienza di uno dei personaggi mentre, sott’acqua, rischia la propria vita per liberare il mezzo che si è incagliato, con atmosfere quasi fiabesche a discapito della situazione raccapricciante. Il film respira e colpisce in questi suoi momenti meno feroci e più soffusi.
Anche la sequenza in cui i belgi, guidati dal giovane e bello Reclercq di Johannes Wirix, preparano delle patate fritte per l’equipaggio del sommergibile, che non le ha mai assaggiate prima, regala all’opera, verso il suo gran finale, 5 minuti di spensieratezza nel claustrofobico contesto in cui si è svolta la vicenda. Ancora, da sottolineare l’agilità di Favino, nella sua grande prova attoriale, nel cimentarsi con un accento veneto piuttosto credibile.
Comandante: (quasi) evitato il rischio della retorica
Era insomma semplice temere per questo film una deriva eccessivamente retorica e celebrativa dell’ennesimo eroe di guerra da glorificare. Rischio in buona parte evitato. In buona parte: qualche battuta un po’ troppo artificiosa che ha fatto scattare qualche mugugno o risatina in sala c’è stata, qualche momento più “standard” e già visto di grezzo cameratismo maschile pure (comprensibilmente, e poteva andare molto peggio). E’ però apprezzabile la volontà di guardare a questa storia con uno sguardo più malinconico e soffuso, che melodrammatico ed epico.
In tempi in cui accoglienza ed altruismo sono tematiche di dibattito giornaliero, un film come Comandante, che mette in scena un faro di umanità in un periodo storico di atrocità, dà spunti interessanti per interrogarsi sulla direzione che sta prendendo la nostra società. O la nostra umanità, piuttosto.