The King of Algiers, recensione: il gioiello gipsy-pulp di Cannes 76

Cinema di genere. Bellissimo e dolcissimo, cinema di genere. Di pulp e di cuore. Che mescola Kung Fusion, Cidade de Deus, un alcolizzato Magimel ad Ageri e i videoclip gipsy-kitsch. The King of Algeri è una di quelle rare perle da scovare nei pertugi di Cannes 76.
The King of Algiers, recensione: il gioiello gipsy-pulp di Cannes 76

Cinema di genere. Ovvero il meglio che il cinema abbia da regalare negli ultimi anni. Ovvero il meglio che questo Festival di Cannes stia regalando negli ultimi giorni. Il biglietto da visita, Benoit Magimel, il prezzemolo francese piazzato in ogni dove. Che quest’anno, come lo scorso per Pacifiction, aveva un film in concorso. E noi non l’abbiamo visto. Piuttosto, abbiamo visto un altro film, The King of Algiers di Elias Belkeddar, proiezione di mezzanotte come ogni anno dedicata a perle sbagliate, scorrette, pulp: appunto, di genere.

The King of Algiers – titolo originale Omar la fraise (Omar “la Fragola”) – è un film che stampa un sorriso dall’inizio alla fine. Prima di risate, continue. Poi di buoni sentimenti. Infine, quel sorriso di quando i film diventano anche amari, ma non abbandonano la propria dolcezza. Semmai, la riscoprono proprio nel loro momento più drammatico. La dolcezza di chi fa cinema di genere stracolmo di sciabole, katane e borse di coca, ma poi dimostra di saper gestire ogni emozione. E creare un pastiche etnico pulp-gipsy-neon che sembra vivere di decine di geografie e grandi nomi del cinema di genere, assieme alla sua inafferabile ironia.

“Benvenuti in Algeria”

The King of Algiers inizia con due uomini, due francesi che camminano nel deserto algerino in vestiti di lino. Sembrano trafficanti di organi e portano una borsa pesante. Si raccontano di un aneddoto avvenuto qualche giorno prima. Un tipo finisce in ospedale dopo una rapina o roba simile e la polizia si rifiuta di dargli gli antidolorifici. Lui allora chiama il suo spacciatore di fiducia per farsi iniettare qualcosa contro il dolore. Ma il cocktail è di troppo perché il poveraccio va in overdose. Lo spacciatore impanica, pensa di mascherare l’omicidio per suicidio e butta il poveraccio giù dalla finestra. Ma prima di riuscirci quello si riprende e inizia a urlare. “È morto?“, chiede un trafficante all’altro. “Eh certo che è morto, stavano all’ottavo piano“.

Finita la barzelletta (assolutamente non inventata) i due uomini incontrano un gruppo di guerriglieri bardati e fanno uno scambio di borse. I due uomini sono Roger (Benoit Magimel) e Omar (Reda Kateb), detto “la Fragola” perché, secondo la leggenda, a 12 anni avrebbe regalato delle fragole al maestro che lo metteva sempre in punizione, per scusarsi. E Omar le avrebbe riempite di chiodi. Quindi, Omar “la Fragola”. In realtà, proprio in quei momenti in cui il film cambia radicalmente tono, si scoprirà che l’origine di quel soprannome è molto più dolce e ha a che fare con la sua infanzia, quando era solo un bambino povero dei quartieri poveri.

Roger e Omar sono amici inseparabili, una nuova “strana coppia” dello schermo che se questo film venisse distribuito come si deve, diventerebbe un instant bromance cult. E la borsa è piena di coca. Nella scena dopo, un misto fra gli inseguimenti alla Guy Ritchie e i quartieri blindati come in Kung Fusion, bastoni e coltellacci alla mano, un vecchietto ordina una carneficina e manda a monte i piani imprenditoriali di Omar e Roger. Loro si defilano e mentre passano davanti a una mendicante, quella guarda in camera, sfodera un sorriso a due denti (gli altri trenta già caduti) e fa: “Benvenuti in Algeria“. Titoli di testa, che inizio col botto.

Roger e Omar, Signori della Sabbia

Omar e Roger nella prima scena
Omar e Roger nella prima scena

The King of Algiers è un film che si può descrivere solo così. Perché le cose sbagliate, scorrette, quelle veramente di genere, quelle per cui puoi solo dire “eh non lo so, è un film di genere“, non si possono descrivere con un solo aggettivo. Più sono di genere, più solo senza regole, più gli aggettivi crescono, i dettagli da rendicontare aumentano. The King of Algiers è un film che si può descrivere solo per dettagli, battute goliardiche, risate in sala, scene memorabili. Per il resto, va visto: è un dovere. Vincere la reticenza che il cinema di genere, fin dai suoi kitschissimi poster – e The King of Algiers ha il più kitsch di tutti – genera inevitabilmente.

Quindi, parliamo di dettagli. Questi due boss che altro non sono che latitanti francesi fuggiti in Algeria – come Craxi ad Hammamet, smegmi incrostati di passato coloniale – per qualche reatuccio di poco conto. Ad Algeri, vivono in una villa enorme coi giardini alla Scarface che però, una volta entrati, si riduce a un divano, un televisore gigante, una piscina sempre vuota e con le mattonelle cadenti… e la borsa di coca che non riusciranno a vendere mai. Tanto che a un certo punto, fatti marci (lo sono tutto il film), si mettono a giocare a biglie sul tavolino da caffè davanti all’unico divano. Solo che la pista, al posto della sabbia, è fatta di coca.

The King of Algiers è esilarante pulp di genere

Reda Kateb e Benoit Magimel i Kings of Algiers
Reda Kateb e Benoit Magimel i Kings of Algiers

Per buona parte del suo svolgimento, The King of Algiers mescola ogni tipo di riferimento e immaginario di genere. Le katane e le asce del cinema giapponese alla Kung Fusion, le sciabole e i baffi alla Frankie Garage di quello mexicano alla Robert Rodriguez, l’umorismo ebraico e le coppie criminali scalcagnate dei Coen, le bande di ragazzini macellai alla Cidade de Deus, i locali al neon mezzi vuoti come nel Jeeg Robot di Mainetti. I videoclip balcanici dei matrimoni zingari. L’Oriente, l’Occidente e il Sub-Sahariano.

Ma poi Omar viene messo come supervisore fantoccio in una fabbrica che produce dolciumi alla mandorla. Messo lì solo per farsi un giro ogni tanto e incutere timore ai lavoratori scansafatiche. E lì si innamora di Samia (Meriem Amiar), una bellissima e indipendente operaia che comanda a bacchetta tutti, anche Omar. E da lì inizia un corteggiamento dolcissimo della bestia con la bella: lui, Omar, ricurvo, coi denti storti, la capigliatura stempiata da cavallo alla Ordell in Jackie Brown. Un brutto insomma, che pensa di rimorchiare Samia con certe perle sconcissime e sboccate che aggiungono solo altra bruttezza. Ma ce lo fanno stare simpatico ancor di più.

Storia d’ammore e di vendetta: l’altro The King of Algiers

Meriem Amiar in The King of Algiers
Meriem Amiar in The King of Algiers

Il cinema di genere si trasforma in storia d’amore, Omar non si rotola più nella coca ma si rotola con Samia nella farina di mandorle e nel suo amore per lei. Ha superato il tempo limite in cui si perde interesse per qualcuno perché non ci ha ancora portato nel suo letto. E ora può solo che riscoprire un nuovo amore, fatto di attesa, non più di battute sconce ma di timide mani in tasca e distanza regolamentare finché lei, lei e non Omar, deciderà che è arrivato il momento del primo bacio.

E la storia d’amore, infine, si trasforma in dramma. Si trasforma in storia di vendetta che mette in mostra quanto, veramente, quei due francesi latitanti e un po’ coglioni, fossero veramente amici. Per questo la giornata migliore che Samia e Omar passano insieme è quella con Roger: perché è il migliore amico cui alla fine presenti l’amore della tua vita.

Il cinema di genere si è trasformato in cinema commosso. Si piangono gli amici, si portano via i bambini macellai dal ghetto blindato e li si portano, in venti dentro una Range Rover, a vedere il tramonto sul lungomare. Con una canzone, greca e non più araba o balcanica stavolta, a dire di cosa ci stesse parlando veramente il film: S’Agapò. Ti amo. Amore dolce, amore fraterno, amore per questo cinema che solo amore ha da dare.

Morale: dare una chance ai “brutti” dal cuore grande

Quando mi sono svegliato, questa mattina, stanco e assonato, di certo molto ben disposto a concedermi non poche ore di sonno in più, stavo per cancellare la proiezione e non vedermi The King of Algiers. Che è proprio metafora perfetta di questi film. Sdentati, non attraenti, vestiti male e presentati peggio. Ma, quando poi si concede loro una chance, dal cuore grandissimo e con tutta la dolcezza che può riempire una sala cinematografica.

Finora la scoperta migliore dopo Monster, che però non andava scovato: qui la nostra recensione del film di Kore’eda. Continuate a seguirci su CiakClub.it per tutte le prossime recensioni in diretta dal Festival di Cannes!

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