Monster, recensione: a bocca spalancata, vedendo 100 film in uno

Kore’eda Hirokazu torna in Giappone e torna in concorso a Cannes con un film che vale per cento. Che inganna lo spettatore e lo rende marionetta in balia di continui, ogni volta sbalorditivi cambi di genere, temi e riflessoni.
Monster, recensione: a bocca spalancata, vedendo 100 film in uno

Ottovolante di emozioni, nella seconda giornata di Festival di Cannes 2023. Rabbia alimentata a pioggia battente e frustrazione, ma poi un film capace di emendare tutto. Frustrazione per un altro film, perso a causa di un’organizzazione, in questa edizione, che già al secondo giorno si dimostra di un’impreparazione imbarazzante nella sua nonchalance. Per fortuna, a consolare (e molto più di questo), c’era il nuovo film di Kore’eda Hirokazu: 怪物; ovvero Kaibutsu; ovvero, Monster.

Il film perso, Strange Way of Life, il corto di Pedro Almodóvar che vede Pedro Pascal ed Ethan Hawke cowboy queer nel Vecchio West. Naturale, con queste premesse, scoprirsi improvvisamente depressi e fuori dai gangheri, per non poterlo vedere nonostante il “cosiddetto” granted ticket che giganteggia, tutt’ora, nella “cosiddetta” mail di conferma. Ma per fortuna il cinema, almeno su chi scrive, ha avuto sempre questa doppia capacità: morale sotto i piedi quando i film non si riesce a vederli o forse, con altri, era proprio meglio non vederli; pura estasi di fronte a quel film che ne conta per cento.

Perché non scherzo quando dico che Monster è cento film in uno. Un rimestare di generi, temi, sospetti, dubbi, diti puntati e biasimi con cui Kore’eda Hirokazu dimostra di avere lo spettatore in pugno: “Vi faccio dire quello che voglio io, vi uso come cose”. Perdersi un film significa perdersi un film. Ma perdersi Monster invece, sarebbe significato perdersene cento. E in mezzo a quei cento, l’unico motivo per cui si tengono i denti stretti, stavolta, è solo per non gridare troppo presto al capolavoro. Anche se si vorrebbe eccome, anche se la prima reazione è quella: di trovarsi di fronte a un film destinato a fissarsi nella storia del cinema.

Da Babadook a Kafka, passando per un certo Iran

Le fiamme erodono un palazzo e due ideogrammi si prendono, verticali, il centro dello schermo. 怪物KaibutsuMonster. Ci ricorderemo di questo titolo e di questo incipit. Violento, infernale. Perché Monster, nel suo disvolgersi attraverso i cento film che lo compongono, parte all’inferno e finisce in paradiso. Monster parte da Saori e Minato, microcosmo di figlio e madre single dopo la scomparsa prematura del padre (e marito). Minato è all’inizio dell’adolescenza, ai cui mostri anagrafici si aggiungono quelli dell’orfanità: ricurvo, taciturno, cupi disegni e strani comportamenti. Poi lividi, discorsi preoccupanti. Soprattutto se sei una madre single in costante apprensione: normale se hai perso un marito e ti rimane solo un figlio. 

Il primo dei cento film che compongono Monster ricorda Babadook. Il mostro interiore dell’adolescenza reso ancor più mostruoso da una madre che non riesce a gestirlo. Ma poi Minato confessa. Confessa di essere oggetto di vessazioni da parte di un nuovo professore, Mr. Hori, su cui già circolano voci di comportamenti promiscui e/o esecrabili. Il mostro è lui. Saori si presenta a scuola. E si trova davanti un muro. Dirigente e corpo docenti si mostrano terribilmente contriti, si inchinano, si prostrano, eppure non ammettono e violenze, usano perifrasi che mandano ai matti. Ma soprattutto non ammettono che il metodo d’insegnamento è sbagliato e non rassicurano affatto, quando affermano che non si ripeterà più. E infatti si ripete.

A dieci minuti dall’inizio, il film è già un altro film. Si crede di aver capito di cosa parlerà effettivamente Monster, di cosa decide di parlare Kore’eda nel suo ritorno in Giappone dopo la parentesi sud-coreana di Broker (che recensimmo l’anno scorso da Cannes 75). Del freddissimo formalismo nipponico, lo stesso formalismo che alimenta l’eccessiva severità e poi l’eccessivo rituale di scuse e genuflessione. Sono incredibilmente mortificati, ma sordi: continueranno come un muro. Un altro film ancora, poi, per Saori, che sembra dover fare i conti con le macchine burocratiche kafiane, da Il processo a Il castello, solo che macchine lo sono le persone.

Il sospetto e l’inganno

Saori e Minato in Monster
Saori e Minato in Monster

Per molta parte iniziale di film, Monster funziona quasi come un thriller, un dramma investigativo che porta lo spettatore a sospettare senza ombra di dubbio di qualcuno, e poi cambiare idea su qualcun altro tempo cinque minuti. Ogni volta con la stessa sicurezza di prima. Quando per esempio Mr. Hori sbotta e afferma di non essere affatto lui l’aguzzino, ma Minato stesso, bullo della scuola che prenderebbe di mira un compagno più piccolo. Un bambino sempre solare, dolcissimo, bellissimo: scelta di casting potentissima. Con quel faccino innocente come potremmo, ora, dopo avercela avuta a morte con lui, non dar retta a Mr. Hori?

Minato è il bullo! Sì, sì. Gli si legge in faccia. Fessi noi che non l’avevamo capito da subito, d’altronde c’erano tutti gli indizi. Inizia a sorgere una domanda: chi è davvero il mostro del titolo? Il mostro interiore? Il professore violento? Il bambino persecutore e cattivo, capace di distruggere la vita a un adulto, sommerso dalla vergogna e vicino al suicidio? La madre del bambino persecutore e cattivo? Un professore dice di lei, parlando di un altro tema ancora del nostro tempo: “I genitori sono mostri, ci crocifiggono prima ancora di sapere com’è andata”. 

Innumerevoli volte che questa parola – mostro, kaibutsu – verrà affibbiata ogni volta a un personaggio diverso, per ingannarci. Per renderci giudici, strapparci una sentenza e sbatterci in faccia, ogni volta, l’innocenza di chi abbiamo condannato senza possibilità di appello.

Monster: prima lui, poi lei, poi noi, voi, essi

Mr. Hori e i suoi allievi
Mr. Hori e i suoi allievi

Ogni volta che questo succede, che l’imputato cambia, anche il film cambia. Ora ci troviamo ne Il sospetto di Vintenberg, ma anche in quel cinema iraniano alla Asghar Farhadi in cui il sospetto, il dubbio, l’accusa reciproca distruggono famiglie e contesti già distrutti. Kore’eda gioca, gioca con noi: ci dice quanto siamo, noi, i veri mostri, sempre pronti a odiare qualcuno in quanto colpevole solo perché tiene lo sguardo più basso degli altri. Lo sguardo più colpevole. Cioè, il più delle volte, quello del cane che è stato bastonato più di tutti invece.

E mentre tutti cercano di darsi la colpa a vicenda, capiamo che la vera colpa, Kore’eda, la vuole far ricadere su di noi che stiamo guardando. Per aver creduto che un mostro, in questo marasma di imputati, ci debba essere per forza. Uno di loro, per forza. E di sicuro non il salaryman barcollante con in mano una lattina di birra alle quattro del pomeriggio. Non lui, macché! Non può essere il mostro, era lì di passaggio. Ed è questo il punto: il mostro non è mai protagonista, è sempre lì di passaggio.

Tre atti, tre punti di vista in Monster

Kore'eda vincitore della Palma per Un affare di famiglia
Kore’eda vincitore della Palma per Un affare di famiglia

E il film non ha ancora finito di cambiare. Perché finora – pur avendo cambiato idea innumerevoli volte ed esserci ricascati ognuna di quelle volte, ogni singola volta colpevoli di aver gridato al colpevole, ogni volta draconiani e con la verità in mano – abbiamo ancora visto una e una sola verità. Perché sì, Monster è uno di quei film che si riavvolge. Uno di quelli alla The Duel di Ridley Scott, che prende la stessa storia e la riracconta tre volte, sempre da un punto di vista diverso.

Prima il bambino vittima del professore, che questi accusa invece di essere carnefice di un altro bambino. Poi il professore, buono, caro, lui vittima di un bambino che si è inventato tutto e che a questo punto, stavolta sì, deve per forza essere il vero colpevole. Infine, dei due bambini. Terzo atto, terzo blocco, terza macro-volta (ce ne sono di micro, a decine, in ognuno dei tre atti) in cui il film diventa tutt’altro da se.

Questa è la volta definitiva. Quella in cui Kore’eda torna al suo cinema che ben conosciamo: delicato, commovente, pieno di buoni sentimenti, ma anche tragico. Gira un thriller, poi una storia di cancel culture, infine una fuga nel mondo dei sogni. Si annulla e poi recupera, inizia all’inferno e finisce in paradiso, dall’incubo al sogno (tragico): arco cinematografico impossibile.

Il mostro siamo noi

I bambini protagonisti di Monster
I bambini protagonisti di Monster

Lo fa per dirci che non si è mai trattato di trovare un colpevole. Che il film, se avessimo dato ascolto ai nostri figli, parlava di tutt’altro. E invece noi, anche noi spettatori, figli di una società sempre pronta a bruciare qualcuno sul rogo per sentirsi meglio con se stessa, non ci rendiamo conto degli effetti che questo produce, appunto, sui nostri figli. In fuga da colpe che in realtà non hanno, che verrebbero disinnescate nell’istante stesso in cui li mettessimo in condizione di essere ascoltati davvero. 

Per questo temiamo il peggio ogni scena – e in questo film ce n’è più di una – che vediamo una finestra aperta al terzo piano e una stanza vuota laddove ci sarebbe dovuto essere un bambino. Per questo sussultiamo, ma quasi ce lo aspettiamo. Perché sappiamo che le nostre, di colpe, sono talmente tante da affollare quella stanza. E per il bambino, spazio non ce n’era più. Per questo sussultiamo. Perché sappiamo, lo sappiamo: i colpevoli saremmo noi.

Continuate a seguirci su CiakClub.it per tutte le prossime recensioni in diretta dal Festival di Cannes. Speriamo ne arrivino altre così. Perché ormai la bocca è rimasta spalancata durante tutto il film, i denti stretti non ci sono più e posso dire – e posso sbagliarmi – quella parolina magica. Ché se non posso dirla per film così, allora perderei il gusto di dirla per qualunque film: capolavoro. Niente, ora mi sento in colpa. Anche perché è venuta una recensione troppo lunga. Ma sapete com’è, stavo recensendo cento film in uno.

Facebook
Twitter