Questa sarà una recensione breve, magari lo fosse stato anche il film. Il film è Jeanne du Barry di Maïwenn, film d’apertura della 76esima edizione del Festival di Cannes e grande-non-così-grande ritorno di Johnny Depp su schermo dopo un’assenza di tre anni. Perché motivo, non c’è bisogno di rivangarlo.
Eppure la scelta di aprire Cannes 76 con questo film – trovate qui la selezione completa che recensiremo nel corso di queste settimane – è strettamente legata a Johnny Depp – che recita in francese. Deve esserlo, guai a pensare che quest’apertura non fosse altro che operazione di marketing e glamourizing. Operazione di casting che suona un po’ di ricatto, accaparrarsi Depp in un momento in cui avrebbe accettato di tutto (comprensibilmente) pur di ripartire. Insomma, non fosse stato per la presenza di Depp, questo film non solo non avrebbe aperto Cannes 76, ma sarebbe stato tenuto ben lontano da qualsivoglia spazio di visibilità.
Jeanne du Barry, ovvero: Maïwenn
In due parole: Jeanne du Barry (Maïwenn) è personaggio realmente esistito, cortigiana quindi donna dotata di una cultura non certo del suo tempo anche se, o proprio perché proveniente dalla povertà, dalla campagna, dalla servitù. Entrata alla corte di Luigi XV di Francia (Depp), ne diventerà la favorita, stravolgendo con le sue stravaganze e le sue modernità la corte intera di Versailles, merletti compresi.
Ora, se è vero che non basta una ghigliottina a fare un decollato, neanche basta qualche merletto sui titoli di testa a fare un film in costume. A fare un buon, film in costume, sicuramente uno dei generi più ambiziosi e complessi cui approcciarsi, anche solo per budget e in termini di art direction. Jeanne du Barry, però, ne ha ben altri di problemi. In ogni dove. Partendo dal meno, anche solo nel montaggio, nelle transizioni, ché se si sbagliano quelle il disastro di solito è preannunciato dal minuto uno. Nelle interpretazioni, soprattutto quelle. Anzi, quella.
Perché Jeanne du Barry è un film pensato – e poi scritto, girato, inquadrato – in ossequio al solo culto della persona. Di una e una sola persona. E se quella persona si rivela essere un’attrice dalle qualità e capacità recitative opinabilissime (tradotto: piuttosto povere), il risultato potete immaginarvelo da voi. Maïwenn fa da regista di se stessa e infatti non pretende nulla da se stessa, alcuna direzione attrice, nessuno che gli dica che dai, forse quell’espressione o quei gridolini in quella data scena non c’entrano veramente nulla.
Ti piace vincere facile

C’è una scena in particolare. Ricorda molto quelle sequenze da dimenticare del Blonde di Andrew Dominik, quelle dell’aborto forzato. Jeanne deve essere “ispezionata” per accertarsi che possa avere rapporti (sì, sessuali) con il buon Luigi. E gli arnesi per farlo sono medievali, strumenti di tortura. Bastava pochissimo per trasmettere quello che la scena, evidentemente, vuole trasmettere: disgusto, impressionabilità, rigetto di una società che faceva (e fa) la donna pezzo di carne da macelleria, da maneggiare a coltellaccio e mannaia.
E all’inizio la buona Maïwenn ansima: di dolore, anche se non sembra, invece sembra le piaccia. Poi ridacchia, fa un’alzata di sopracciglio, e quello che doveva rappresentare quella scena è diventato tutt’altro. L’opposto. Poi viene in mente un’altra scena. Il primo incontro fra Jeanne e Luigi. Prima di entrare, le viene detto che non potrà mai dare le spalle al Re. Questa però è una storia di rottura, quindi ovviamente lo farà. Ma la prevedibilità supera la prevedibilità.
A tre minuti dal loro primo incontro, Jeanne si gira. Ovviamente. E ovviamente si scusa, ma dopo mezzo secondo, senza darsi neanche il tempo di pensare. Doveva girarsi, doveva scusarsi. E lui sorride, perché ovviamente è moderno, perché ovviamente sorriderà. E allora che novità avrebbe portato Jeanne? Delle due l’una. O Luigi era già moderno di suo. O si è reso tale tempo tre minuti, ma allora non per la donna; solo per la sua bellezza. Assecondarla, per scoparla.
L’egocentrismo, nemico giurato della lotta collettiva

Da qualche anno a questa parte, siamo figli del nostro tempo. Da qualche anno a questa parte, come figli del nostro tempo ci poniamo il problema dello sguardo. Della riappropriazione, per ogni “categoria”, dei propri temi. Nel caso di Jeanne du Barry, l’esprit féminist. Ma Jeanne du Barry è un film in cui questo spirito non è affatto figlio del suo tempo, dell’apertura dell’oggi a certi temi: comunque, ancora, parzialissima. Figurarsi se è figlio del tempo in cui è ambientato, il lontano ‘700. Quindi lo sguardo, figlio di una coscienza femminile e (voleva Maïwenn nelle premesse) anche femminsta, è certo importante.
Ma lo sono altrettanto due altri aspetti fondamentali. Il primo, il più ovvio, il meno “colpevolizzabile”: la capacità di gestire un mezzo. In questo caso quello cinematografico, il mezzo; in questo caso nulla, la capacità. Due, il desiderio spasmodico di protagonismo di chi ha diretto e interpretato questo film. Non è Jeanne che vediamo su schermo: è Maïwenn che vuole vedersi celebrata e vuole vedere un’intera corte settecentesca prostrarsi e inchinarsi di fronte alle modernità e rotture della sua protagonista. Applausi sporchi e subito. Ma allora dove la lotta? Dove il germe della Rivoluzione?
Da dove l’impulso di decapitare il povero Delfino – erede di Luigi XV, futuro Luigi XVI – se qui lo vediamo parteggiare per la prostituta che tratta il nero di corte come figlio? Tutta questa corte al seguito di Jeanne du Barry? Davvero? E allora dov’era tutta questa difficoltà d’emancipazione? Se è lei che governa più del Re? O meglio, governa il Re e con lui tutti i sudditi a pecoroni? Vestirsi come un uomo? Detto fatto, e se ti guardano male tu farai spallucce, perché ti è concesso tutto. Ogni cosa è prevedibile, niente è combattuto. È la morte della rivoluzione, femminista prima ancor che francese. Mistificazione storica ad alti livelli, mesdames et messieurs.
Istruzioni alla servitù (e a Jeanne du Barry)
Questa recensione non più breve è stata scritta con bicchiere di vino alla mano, ma voleva essere scritta con le quantità ingurgitate, nel film, dal personaggio di Melvil Poupaud. Si è scelto di non esagerare. Ché altrimenti sarebbe venuta fuori cattiva. Perché potete credere a questo: lo è stata, cattiva, molto meno di quello che avrebbe potuto, e forse dovuto essere.
Nota di merito al maggiordomo La Borde di Benjamin Lavernhe. Che recita la battuta migliore di tutto il film e forse la miglior descrizione di tutto il film. ”È grottesco!”, gli urla Jeanne. “No, è Versailles”, risponde lui. Morale: date retta ai maggiordomi e non alle dive in cerca di glamour. Sono loro, sempre loro, le vere voci della servitù.
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