In occasione del 69esimo compleanno di Michael Moore, abbiamo rivisto i documentari del regista e abbiamo pensato che parlarne sia il modo migliore per festeggiarlo. Esordisce nel 1989 con Roger and Me ma, dopo l’Oscar nel 2002 con Bowling a Columbine, Michael Moore fa scuola ai registi di documentari e probabilmente molta paura ai potenti americani contro cui si espone. Ricordiamo: Fahrenheit 9/11 (2004), Capitalism: A Love Story (2009), Michael Moore in TrumpLand (2016), Fahrenheit 11/9 (2018).
“Columbine ha cambiato il modo di parlare”

Bowling for Columbine di Michael Moore riguarda una vicenda drammatica ed inquietante della storia americana, dopo la quale si è intensificato il dibattito pro/contro il libero possesso di armi negli USA (Qui la recensione della serie su un altro massacro che ha segnato l’America, quello di Waco). Il 20 Aprile 1999 due studenti, Eric Harris e Dylan Klebold, introducono fucili e armi nella scuola superiore del distretto di Columbine e sparano a compagni ed insegnanti. Uccidono in totale 13 persone, lasciandone 24 ferite, poi si suicidano a loro volta nella biblioteca della scuola.
Columbine ha dato il via, in America, all’odio per i videogiochi violenti o alla demonizzazione dell’heavy metal. Classico esempio di quando si cerca la colpa fuori dalle nostre case, ignorando, appunto l’elefante nella stanza.
Elephant, Gus Van Sant

Proprio l’idea dell’elefante dà il titolo al film del 2003 di Gus Van Sant, Elephant. Vincitore, con una deroga al regolamento, sia della Palma d’Oro che del Premio alla Miglior Regia a Cannes, il film si ispira alle vicende del massacro di Columbine. La camera nel lungometraggio segue, con la tecnica della soggettiva, le spalle dei personaggi. Come in un pedinamento entriamo nella vita del liceo esplorando le vite di giovani uomini e donne. Fino alla fine, quindi, non colleghiamo la trama al massacro di Columbine. Al termine dell’unica giornata del film le carte si scoprono ed Eric e Alex (viene sostituito il nome di Dylan) si rivelano i due assassini.
Il massacro di Columbine secondo Michael Moore

Il film di Michael Moore, del 2002, è invece una vera e propria inchiesta. Il regista intervista i personaggi più implicati, secondo l’opinione pubblica americana, nella vicenda: da Marilyn Manson al presidente della RFA (l’Associazione americana a favore della detenzione di armi); poi il padre di una delle vittime o alcuni giovani sopravvissuti. Ne risulta uno spaccato su una questione forse più grande degli americani stessi e, dal pretesto del massacro, il tema principale diventa un altro: la società violenta (quella dei romanzi di Chuck Palahniuk, per intenderci) e l’accesso alle armi.
“Che diresti ai ragazzi della Columbine?”
Questo chiede Michael Moore a Marilyn Manson ad un certo punto nel documentario e il cantante risponde così. “Non direi loro niente, ascolterei quello che hanno da dire, visto che nessuno finora l’ha fatto“: è quello che, l’anno dopo, ha realizzato Gus Van Sant con Elephant. Nel film del 2003 i ragazzi sono rappresentati nella loro quotidianità, Eric appassionato di videogiochi ed Alex pianista amante di Beethoven. La società sembra non esistere, tantomeno l’America che invece Moore spiattella lungo il documentario.
Van Sant si ispira al massacro di Columbine senza esserne fedelmente il riproduttore: per questo la vicenda riguarda soltanto la generazione degli adolescenti. Gli adulti sono pochi ed inutili, mentre invece in Bowling a Columbine i genitori intervistati denunciano un terrore dei propri figli.
I nostri figli erano da temere, si erano trasformati in piccoli mostri.
Parliamo dell’elefante nella stanza

Col premio Oscar Bowling a Columbine Michael Moore riesce impeccabilmente a compiere un’impresa: inserire il tassello di un massacro violentissimo al giusto posto nello schema della società americana. Mentre i media e la gente sparano a zero su tutto ciò che non conoscono collegando l’orrore di Columbine a fenomeni del tutto sconnessi ad esso, o comunque legati soltanto da circostanze secondarie, la regia di Michael Moore fa centro. Noi spettatori di 20 anni dopo comprendiamo ciò che voleva dire: la causa di quel massacro è la paura che terrorizza. L’America è così terrorizzata dalla violenza di cui continuamente i media parlano che la sola difesa sembra una violenza più grande. Da qui l’impossibilità di rinunciare alle armi, la totale noncuranza di altri pericoli per l’uomo come l’inquinamento, la cecità riguardo le azioni spaventose dei politici.
Abbiamo dimenticato che il Presidente lanciava bombe oltremare eppure il cattivo sono io perché canto delle canzoni rock.
La paura terrorizza, affabula e legittima quindi la violenza, che diventa del tutto banale come denuncia Gus Van Sant. Alla fine di Elephant il click di una macchina fotografica analogica viene confuso con quello del grilletto di un fucile. Pur facendolo con un film di finzione, anche Van Sant compie un’investigazione attraverso il cinema: nei bisogni e nelle fragilità degli adolescenti, di cui la società, troppo impegnata a temerli, non si sta accorgendo come dell’elefante nella stanza appunto.
La fede di Michael Moore

La seconda parte di Bowling a Columbine è una professione di fede: Michael Moore si prodiga per convincere una fabbrica di munizioni a non vendere più i propri prodotti all’interno dei grandi magazzini. Lo fa con un documentario nel documentario, attraverso l’arma più potente che ha conosciuto nella sua vita: la testimonianza. Due giovani rimasti invalidi dopo le ferite dalle armi da fuoco del massacro di Columbine arrivano insieme a Moore a parlare ai dirigenti dell’azienda, sensibilizzandoli. La gioia negli occhi del regista all’annuncio che dalla K-Mart cesseranno le vendite racchiude il senso dell’intera sua carriera.
What a Wonderful Life in sottofondo, il documentario finisce, e noi diciamo buon compleanno Michael Moore! E grazie.