Killers of the Flower Moon: recensione del film di Martin Scorsese

Quindi, com’è il film da tre ore e mezza di Martin Scorsese, nonché il più atteso dell’anno? Noi lo abbiamo visto a Cannes. E, sarà la cosa più difficile da accettare, non è né un capolavoro né un macigno insostenibile. “Solo” un altro grande film di Scorsese. Sicuramente il più politico.
Killers of the Flower Moon: recensione del film di Martin Scorsese

Recensire questo film: privilegio o spada di damocle? Vedere questo film in anteprima mondiale, sicuramente privilegio. Sapere poi di doverlo recensire: ansia fatta pagina bianca. Sentimento che ricorda tanto quello del Sublime. Vale a dire, nel bene e nel male, quella sensazione claustrofobica di trovarci di fronte qualcosa di troppo più grande di noi, che per questo ci terrorizza. Tutto questo è Killers of the Flower Moon di Martin Scorsese, con le sue tre ore e mezza viste qui al Festival di Cannes.

Una prefazione: “Sul recensire Killers of the Flower Moon”

Immaginate di trovarvi di fronte al film più atteso dell’anno (e forse anche di qualche annata a questa parte). Un kolossal di cui si è parlato per anni, figlio di uno dei più importanti – o il più importante? – regista vivente. Un film di cui noi, come voi d’altronde, abbiamo visto una sola immagine per mesi, quella in copertina. E poi un trailer, noi come voi, appena due giorni fa. E poi, finalmente su schermo, tutto in una volta per tre ore e mezza di grande, ingombrante epopea americana.

Ma la cosa più difficile di tutte è scoprire una verità che il pubblico, proprio di fronte a film così ingombranti per attesa che li circonda e per l’evento che rappresentano, non riesce proprio ad accettare o comprendere. E cioè che questi film, che questo film, che Killers of the Flower Moon, non è né un capolavoro né un’agonia. Non polarizza.

Il che lo rende ancor più difficile da incapsulare in una recensione. Il che dimostra quanto le recensioni siano sbagliate, certe volte. Ma anche quanto siano importanti, tutte le volte. Per restare lucidi. Perché il mondo, là fuori, è già abbastanza impazzito di suo. Per fortuna però, ci sono i film di Martin Scorsese a raccontarlo. E per fortuna, non si possono ridurre a una sola parola, capolavoro o agonia che sia.

Owners of the Black Petrol

Killers of the Flower Moon è tratto dall’omonimo romanzo di David Grann – dalle cui opere Scorsese sta attingendo anche per il futuro The Wager – dedicato all’epidemia di omicidi nella comunità indiana dell’Osage Nation negli anni del Proibizionismo. Storia vera. David Grann sottotitola: “Una storia di frontiera“. C’entra il petrolio. C’entra sempre il petrolio con gli americani, solo che stavolta, a trovarselo sotto i mocassini, sono stati gli americani sbagliati: quelli dalla pelle rossa, che poi rossa non è. Di rosso però, si macchierà ben presto la terra, già diventata nera nera nera… come il petrol.

Protagonista è Ernest Burkhart (Leonardo DiCaprio), un veterano imbruttito della Prima Guerra Mondiale trasferitosi nell’Osage Nation dallo zio William Hale (Robert De Niro), considerato come una specie di governatore, filantropo, guida del popolo dalla comunità indiana del luogo. Ovvero la comunità, specifica all’inizio Scorsese, con la più grande ricchezza pro capita al mondo. Per una volta, gli indiani posseggono il petrolio. E posseggono la terra, protetta, che gli americani non possono strappargli. Quindi si insinuano fra di loro, li sposano, poi li avvelenano, li fanno passare per ubriaconi suicidi.

Per una volta, il dominante è in posizione di dominato. Di coniuge per interesse in attesa della morte del coniuge ricco. Una premessa narrativa, nella grande distesa della Storia Americana, dai risvolti interessantissimi. Questo film è stato anticipato come il primo vero western di Scorsese. Anzi, chi ci ha lavorato lo anticipava come “il più grande western di questo secolo“. Ma per anni e per costumi si colloca un po’ più in là: il West della Golden Rush è finito, le parti da civilizzare civilizzate, ora è la volta della Black Rush, la corsa all’oro nero.

DiCaprio e De Niro nello stesso Scorsese

Robert De Niro e Leonardo DiCaprio
Robert De Niro e Leonardo DiCaprio

Fra i mille aspetti che hanno fatto crescere a dismisura l’attesa intorno a questo film, la reunion dei due feticci di sempre di Martin Scorsese, finora tenuti debitamente separati e ora ricongiunti insieme, per la prima volta in un suo film, come Killers of the Flower Moon. L’abbraccio fra i due a inizio film scalda e, all’inizio, ci fanno naturale simpatia. D’altronde sono Leonardo DiCaprio e Robert De Niro in un film di Scorsese.

Il primo, un bifolco dal pochissimo charme – era proprio arrivato il momento di vedere DiCaprio in un ruolo così, con un trucco così, con un accento così ed espressioni ricurve come queste – ma pur sempre un innocuo bifolco. Il secondo, il patriarca celebrato dalla comunità, che offre i suoi consigli da vecchio saggio della collina e vecchio saggio dei film di Scorsese. Ma Scorsese, questi due giganti, non l’ha riuniti per celebrarli. Anzi. Riunisce questi due giganti solo per distruggere i suoi stessi miti, i nostri miti. Per mettere sul banco degli imputati se stesso e tutta la “Grande Storia Americana”, che di grande ha sicuramente i genocidi.

Per farlo, Scorsese distrugge gli eroi del suo cinema. Perché sì, il Jordan Belfort di The Wolf of Wall Street era un cocainomane arricchito dai fallimenti della classe media. Ma seguiva pur sempre un arco dell’eroe molto canonico, nei film di Martin Scorsese. E Robert De Niro ne è stato il gangster per eccellenza – e anche Killers of the Flower Moon, nel suo non essere un western propriamente detto, vive di tantissimi generi propri del cinema di Scorsese, anche del gangster movie – ma anche lui era l’antieroe per eccellenza. Qui invece non ci sono eroi che tengano. E infatti anche l’arco narrativo canonico – ascesa, svolta, crollo – subisce una sostituzione, in Killers of the Flower Moon.

Sostituzione etnica, quella vera, quella dei bianchi

Una scena di Killers of the Flower Moon
Una scena di Killers of the Flower Moon

Di questo parla Killers of the Flower Moon. Di quelle due paroline che in questi periodo piacciono tanto a fin troppi governi. Sostituzione. Etnica. Quella vera. Ci troviamo di fronte a uno dei film più politici di Scorsese. Che parla di una sostituzione etnica lenta, progressiva, lunga. Tre ore e mezza in confronto a ciò che racconta sono poche. Anche se un po’, a dirla tutta, si accusano, ma neanche troppo. E questa progressione non segue la classica ascesa su cui si basano i primi atti di molti film di Scorsese. A meno di credere che i protagonisti siano davvero DiCaprio e De Niro.

Non lo sono. Il primo atto di Killers of the Flower Moon è una discesa. Una discesa agli Inferi che gli indiani non vedono arrivare, incomprensibilmente incapaci di accorgersi che il Diavolo è in mezzo a loro, nelle loro case, nei loro stessi letti, in chi prepara loro la cena. Anche solo il cibo e l’alcool, dettaglio importante, sortiscono sull’alimentazione indiana effetti devastanti. Molto simile a quello delle malattie europee portate, sempre negli stessi luoghi ma centinaia di anni prima, da Cristoforo Colombo e Conquistadores.

Ma, diceva qualcuno nel saggio ultimo sulla mentalità del genocidio nazista – una tale Hannah Arendt, il saggio è ovviamente La banalità del male – questi Diavoli non hanno la statura dei mostri. Sono solo dei piccoli bifolchi, “si somigliano e ci somigliano“. La cosa più inquietante dei discorsi caritatevoli di De Niro e delle espressioni stravolte di DiCaprio, è che in certi momenti potremmo anche credere al loro bianchissimo candore, come Arendt scriveva stupita (e preoccupata) una volta trovatasi davanti Adolf Eichmann a processo.

Killers of the Flower Moon: una posfazione

Il processo (e Brendan Fraser)
Il processo (e Brendan Fraser)

Grande film di Martin Scorsese, né capolavoro né certamente agonia. L’incontro dei suoi miti con il solo obiettivo della loro demonizzazione, affinché l’autoaccusa del popolo americano funzioni davvero, arrivi davvero: bisogna uccidere i loro eroi. Una colonna sonora che attacca di rock psichedelico sommato a percussioni tribali e non stacca mai, funzionando come un fievolissimo climax quasi per tutta la durata del film, qualcosa di simile al crescendo millimetrico del Bolero di Ravel, per capirci.

E tre ore e mezza di film necessarie, sì, a raccontare non solo degli omicidi, ma anche dell’istruzione del caso da parte del giovanissimo FBI e del successivo processo. Perché quando gli americani fanno di questi film, il più delle volte sono tutti sul crimine e relegano gli sviluppi processuali ai titoli di coda; oppure sono solo sul processo e sorvolano sulla crudeltà degli orrori che hanno portato ad esso. Qui invece si racconta tutto, perché è importante, perché è l’unico modo per compiere una denuncia politica che suoni davvero esaustiva. E qui serviva che lo fosse. D’altronde, ci ha insegnato invece uno scrittore russo, per parlare sia dei delitti che delle pene, ci sono dei tempi regolamentari.

L’elefante nella stanza che è Killers of the Flower Moon

Martin Scorsese con la protagonista Lily Gladstone
Martin Scorsese con la protagonista Lily Gladstone

Non stupirebbe, per il peso politico di questo film – oltre al lato superficialmente “qualitativo”: regia, interpretazioni, scrittura, fotografia, sotto tutti questi aspetti è già tranquillamente uno dei migliori film dell’anno – che Killers of the Flower Moon raggiungesse la vetta degli Oscar 2024. È presto per dirlo, ma non stupirebbe. Noi ci facciamo una scommessa. Per voi invece, un’annotazione di viaggio. Non guardate assolutamente l’orologio durante la visione, vincete l’impulso, è l’unico modo per superare quelle tre ore e mezza senza chiedervi quando finiranno. Sarebbe come rivivere il corso della Storia cronometrando il tempo ogni cinque minuti.

Perché in fondo, Killers of the Flower Moon questo fa. “È semplicemente un grande film di Martin Scorsese, racconta una Storia“, mi sento rispondere da un collega fuori dalla sala. La domanda che gli avevo fatto? Preoccupata: “Vogliamo parlare dell’elefante nella stanza?“. Almeno uno, a 80 anni suonati, è riuscito a parlarne. Forse perché è davvero il più grande di tutti e senza bisogno di un capolavoro. Semplicemente, ancora una volta, a 80 anni suonati, del suo ennesimo grande film.

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