The Wonderful Story of Henry Sugar: la recensione da Venezia 80

Wes Anderson rischia di esasperare non pochi con The Wonderful Story of Henry Sugar, raggiungendo l’estremizzazione di problemi nell’aria da tempo. Ma forse, nell’irritazione, riconosciamo la volontà di mandare un messaggio. Vi spiegiamo quale, nella nostra recensione da Venezia 80.
The Wonderful Story of Henry Sugar: la recensione da Venezia 80

Film breve, recensione breve. Anche se, paradossalmente, il nuovo mediometraggio di Wes Anderson, presentato qui a Venezia 80 e in arrivo su Netflix dal 27 settembre, richiederebbe un signor approfondimento. Per venire a patti con i problemi che in Wes sembrano aggravarsi con costanza quasi inquietante negli ultimi film, ma proprio perché questa costanza fa pensare a qualcosa di calcolato, di consapevole e di radicale, e per questo tanto irritante a volte. The Wonderful Story of Henry Sugar porta alle estreme conseguenze problemi che abbiamo ravveduto anche in Asteroid City, in uscita il 14 settembre e che abbiamo visto a Cannes 76. Ma vogliamo concedergli il beneficio del dubbio, anche se…

Cercasi trama per The Wonderful Story of Henry Sugar

Una scena di The Wonderful Story of Henry Sugar
Una scena di The Wonderful Story of Henry Sugar

È difficile arrivare al nocciolo della trama di The Wonderful Story of Henry Sugar. Al cuore della cipolla. Semplicemente perché in quei quaranta minuti sembrano esserci solo gli strati esterni, della cipolla: sono tanti, troppi, e fanno venire da piangere, ma non di commozione. Scavando scavando, a suon di descrizioni senza respiro di narratori dal fondale sempre diverso (cast, ovviamente, in sovrannumero di giganti resi pigmei), si arriva al personaggio di Ben Kingsley, simil fachiro che si presenta in ospedale sostenendo di poter vedere qualunque cosa gli succeda intorno, anche con gli occhi chiusi. Rimandiamo al racconto di Roald Dahl, per una trama più accurata, noi non l’abbiamo capita o comunque abbiamo fatto molta fatica a seguirla.

Perché questo divertissment di medio termine è una sorta di esperimento esasperato – e quindi, per questo viene da dire, forse con intenti precisi – delle strutture narrative a matrioska di Wes Anderson. In Grand Budapest Hotel, una ragazza in un cimitero leggeva un libro, di uno scrittore che dal suo studio declamava, di quando al Grand Budapest incontrò quell’uomo, che gli avrebbe poi raccontato, nel corso di una lunga cena, la storia che è poi Grand Budapest. Che al mercato mio padre comprò. Tre livelli. Su due ore pellicola, quei segmenti sui narratori si prendevano sì e no una ventina di minuti.

Esasperando Wes Anderson: da Grand Budapest ad Asteroid City

Una scena dal mediometraggio di Wes Anderson
Una scena dal mediometraggio di Wes Anderson

In French Dispatch il sistema era simile, ma la cornice un po’ più frammentata (per esempio, nell’episodio con Jeffrey Wright era lui, a leggere in TV, quell’articolo che scrisse, in quel numero di quattro racconti, e così via e così via…). In Asteroid City, semplicemente abbiamo perso il conto, ma soprattutto l’utilità dei livelli metanarrativi (in quel caso, vedrete, davvero non giustificati da una struttura di senso che non sia il metatestuale per il metatestuale).

Qui, tutto il medio diventa quella struttura. Ogni frase pronunciata risulta spezzata da micro-sospensioni e prime persone del narratore di turno: “Pensa” “Esordii” “Dissi”. E quando questo avviene siamo già, dopo appena 10 minuti, in un sottolivello, di un sottolivello, di un sottolivello, di un sott… Vabbé avete capito. E ogni volta si perde il contesto, si vive una storia due minuti per volta, quella di chi narra. E proprio qui, effettivamente, si fa strada un dubbio, un’obiezione ai propri stessi fastidi di spettatore.

L’estremo: The Wonderful Story of Henry Sugar

Da Grand Budapest in poi posso dirvi, da critico che parla con altri critici e che soprattutto ascolta altri spettatori, che con Wes Anderson sembra diventata una prova di resistenza, tanto più quelle sue radicalizzazioni (in cose apparentemente banali però, questo manda in tilt) si fanno accentuate un film dopo l’altro, escludendo invece le sue meritevolissime digressioni nella stop-motion. Un po’ tutti amarono Grand Budapest; French Dispatch, c’è chi lo amò e chi odiò, spesso per gli stessi motivi (chi scrive è fra i primi); Asteroid City è stata la fine dell’idillio; Henry Sugar la conferma di quella fine. Se prima Wes Anderson raccontava storie e ciò che lo rendeva inimitabile erano tutti quei dettagli ed escamotage e movimenti di macchina e simmetrie e colori pastello che, semplicemente, contraddistinguevano di Wes Anderson; ora ci sono solo quei dettagli, e la storia non c’è più.

È come se Wes Anderson stesse estremizzando ciò che, crede, ce lo faccia piacere, quando sono in realtà i suoi aspetti più frivoli, più banali (perché no, Wes Anderson non è sempre stato questo, era molto più dei suoi dettagli, un tempo). O meglio, e qui sta tutta la differenza del mondo: che credevamo, ce lo facesse piacere. Questo processo è stato troppo costante perché non si possa pensare a una sfida provocatoria nei confronti del pubblico. Il problema è che il pubblico continua a cascarci e ci cascherà anche con Henry Sugar (salvo chi, seguendo l’andamento, vi riconoscerà il suo punto di defezione). Della serie: “Da qui in poi non ti seguo più”.

Storie social due minuti per volta

Benedict Cumberbatch e altri mille narratori
Benedict Cumberbatch e altri mille narratori

Insomma. Dove c’è costanza c’è – o almeno speriamo che ci sia – consapevolezza. C’è operazione voluta. C’è un bombardamento strategico. Che è poi come viviamo le nostre storie al giorno d’oggi. Alcuni accusano Wes Anderson di essere diventato indistinguibile dai TikTok che lo scimmitotano. Ma se fosse l’esatto opposto? Se fosse lui a scimmiottare loro, a riprodurre in 40 minuti di visione quello che, altro non sono, che 40 minuti di uno scorrimento via social: una storia per volta, un minuto e mezzo per volta, e poi appena è finita la successiva ci siamo già dimenticati della precedente.

Lì la progressione è verticale, certo; in Anderson concentrica; ma il risultato, in termini di focalizzazione, è lo stesso. Siamo deconcentrati, viviamo nel metatestuale (tanto, troppo del cinema degli ultimi anni vive del metatestuale). E allora forse Anderson gioca proprio su questo. O forse in realtà anche questa recensione è stata tutta un grande divertissment. Forse ci stiamo arrampicando sugli specchi, stiamo facendo gli avvocati del diavolo. Ma forse invece, solo Wes Anderson potrà dimostrarci che sì, è proprio questo che stava facendo, che non si è perso completamente.

E allora l’unica cosa che resta da fare è porre una domanda, di fronte a questa provocazione progressiva: “Quanto ancora può durare? Quando finirà? Quando alla provocazione controintuitiva subentrerà la concettualizzazion esplicitata, ammesso che ci sia poi?”. Giacché, affinché provocazioni del genere funzionino, non possono durare all’infinito. A un certo punto bisogna dileguarsi, rallentare. Sostituire il silenzio al chiasso. Che purtroppo, attualmente, è quello che Wes Anderson ci ha portato a desiderare.

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