“Le cose belle son volate via” intona la canzone leitmotiv del nuovo film di Pupi Avati uscito ieri, 4 Maggio, in tutte le sale italiane. Noi l’abbiamo visto e, seppur nel complesso delusi e poco convinti, cerchiamo di non far volar via le cose belle de La quattordicesima domenica del tempo ordinario e proviamo a raccoglierle in questa recensione.
Sia benedetta la nostalgia
Una delle cose per cui apprezzare La quattordicesima domenica del tempo ordinario è il sentimento che lo muove dal primo al novantottesimo minuto: la nostalgia. Il motore principale di tutta la trama è, infatti, il ricordo amareggiato e disilluso degli anni della giovinezza, quelli in cui un chiosco dei gelati è il luogo dove si esaudiscono i sogni.
Da quel posto speciale di Bologna, fra via Saragozza e via Audinot, iniziano il racconto di Marzio e l’intero film. Marzio Barreca, ormai vecchio, narra le vicende della sua vita dall’alto della sua anzianità e con gli anni che passano racchiusi tutti nella sua voce. Ha conosciuto Sandra in quel luogo speciale, che poi è diventata sua moglie; dopo essersi separati e persi per trent’anni, ora la ritrova al funerale di Samuele, l’altro vertice della vita di Marzio. I due ragazzi formavano il duo musicale I Leggenda, e proprio cantando La quattordicesima domenica del tempo ordinario provano ad approdare, fallendo, a Sanremo. Questa delusione separa le loro vite per sempre: Samuele diventerà il borghese presidente di una banca, Marzio invece il musicista fallito che chiede l’elemosina in qualche locale.
La quattordicesima del tempo ordinario è una domenica senza sole

Se la storia densa di nostalgia, sentimenti, amori e vicende estremamente vere ci fa pensare ad un film drammatico e complesso, uscendo dalla sala abbiamo l’impressione di aver assistito ad uno spreco di potenziale. La profonda verità delle dinamiche umane, infatti, viene condensata dentro scene che di vero sembrano avere ben poco. La rarefazione, l’artificio, le atmosfere tese ed estremamente patetiche rendono le rappresentazioni poco credibili ed è un vero peccato, perché potrebbero essere credibilissime rese in un altro modo più fluido e naturale.
C’è da dire, però, che probabilmente il regista è consapevole del fatto che anche lo stile e la tecnica delle scene siano retrò, non soltanto l’ambientazione della storia. Da una parte, infatti, Pupi Avati compie sicuramente in modo volontario un tentativo di far respirare nel film gli anni Sessanta di quella Bologna da cui racconta una vicenda autobiografica. Però calca troppo la mano, e anziché sentire l’odore di quell’ambiente e quel tempo, ci compare un macigno sul petto che ci schiaccia e ci toglie l’aria.
Marzio: il vero protagonista del film

Marzio Barreca, interpretato da Lodo Guenzi nella versione giovanile e da Gabriele Lavia da anziano, con la sua estrema fragilità psicologica è il solo protagonista del film. Gli altri sono figure che gli orbitano intorno senza lasciare davvero traccia, attraverso dialoghi sterili e vicende narrate in modo piuttosto ingenuo. Lodo Guenzi ad un certo punto urla con tutto se stesso, nella stanza d’albergo in cui si sta separando da una Edwige Fenech in splendida forma. Ecco, quell’urlo liberatorio, violento, istintivo e vivo è ciò che ci aspettiamo dall’inizio del film. Ci verrebbe da dire: “Che ca**o aspettavi!“
Con Samuele come il gatto e la volpe
Quando Marzio viene raccontato accanto a Samuele (Massimo Lopez da vecchio, Nick Russo da giovane), l’impressione che abbiamo dei due è di una coppia stile “il gatto e la volpe“. Una sintonia genuina, giovane e calda come le belle (queste belle davvero) inquadrature dei portici di Bologna nelle giornate di primavera. Ma anche un duo un po’ malandrino, zoppicante, ingannevole, che in fondo finisce per autosabotarsi. Una sottolineatura interessante: mentre la coppia sembra formata da un buono (Samuele) ed un cattivo (Marzio), i fatti rovesciano i ruoli. A fare un torto all’altro non è mai Marzio, come ci aspetteremmo dal personaggio istintivo, scapestrato, spesso perso: è lui, invece, a riceverlo da Samuele.
La quattordicesima domenica del tempo ordinario ci piace, la canzone più del film

Lodo Guenzi de Lo Stato Sociale canta una ballata smielata in stile anni Sessanta: la versione indie di uno pseudo Gino Paoli ci piace. La canzone torna nel film almeno quattro volte, cantata da Marzio da giovane a Sandra perché è di loro due che parla; nelle esibizioni del duo; riproposta da Marzio ormai anziano come cavallo di battaglia. È probabilmente ciò che ci ricorderemo de La quattordicesima domenica del tempo ordinario: la retorica semplice di una canzone d’amore italiana che punta al palco di Sanremo negli anni Sessanta. Nonostante sia retorica e spesso evidentemente costruita, però, la dolcezza e la musicalità ci arrivano, e così in fondo accade per il film.
I particolari da salvare

Se guardiamo ai piccoli dettagli e alle attenzioni minime qualcosa ci colpisce. Un esempio? Le pareti blu. Quando Marzio chiede a Sandra di sposarlo, lei dice “sì” soltanto a patto di avere le pareti di casa completamente blu. Diventano bianche a casa di Marzio da quando Sandra non c’è più e così le trova rientrandoci dopo quarant’anni. Torneranno blu di nuovo alla fine del film, perché in qualche modo si sono ritrovati. E Marzio ha (casualmente?) una macchina blu: per noi non è affatto un caso, e se non fosse così ci piacerebbe molto.
Di questa Quattordicesima domenica del tempo ordinario sicuramente salviamo le piccolezze che, se non fosse debole in tutto il resto, saprebbero valorizzare con grandissima potenza le fragilità che rendono piccoli i personaggi (e tutti gli uomini). Finché “le cose belle non sono volate via del tutto” possiamo dire ancora viva il cinema che ci permette di accorgercene, anche quando non eccelle. Scopri cos’altro guardare in sala in questo mese!