Indiana Jones 5, recensione da Cannes 76: au revoir, Indianà!

Presentato in anteprima a Cannes 76, Indiana Jones e il quadrante del destino doveva rappresentare il congedo di Harrison Ford da Indy. Ottima la regia di Mangold e le musiche di Williams, ma l’addio pesa e serviva armarsi di coraggio. Per noi, ma soprattutto per chi era dietro la cinepresa.
Indiana Jones 5, recensione da Cannes 76: au revoir, Indianà!

Il dado è tratto. Indiana ha valicato non solo i confini della Storia: ora anche quelli del Tempo. Indiana Jones 5 – al secolo Indiana Jones e il quadrante del destino, che abbiamo visto in anteprima dal Festival di Cannes – è il capitolo con cui LucasFilm promette ormai da mesi di voler mettere la parola fine all’arco dell’avventuriero. E riesce sicuramente a fornire un buon capitolo quando preso singolarmente, forse persino migliore del Regno del Teschio di Cristallo.

Il merito alla regia di James Mangold, di cui d’altronde ci fidavamo non poco. Il merito alle musiche di John Williams, di quelle riparleremo. Ovviamente, ve lo anticipiamo già, SENZA SPOILER. Un nuovo spunto magico-archelogico-scientifico in grado di alzare ulteriormente l’asticella delle avventure che questi poveri occhi stanchi di Indy possono raccontare di aver vissuto.

Profezie autoavveranti: Terminator, Harry Potter e Indiana Jones 5

Sono sempre stato affascinato dalle profezie autoavveranti. Il cinema ne è pieno. Vale a dire quelle situazioni alla John Connor e Harry Potter. Il primo viene braccato dai Terminator nel passato per impedirgli di diventare il capo della resistenza. Ma nessuno si chiede mai cosa avesse di tanto particolare, John Connor, per diventare il capo della resistenza. In pratica, gliel’ha insegnato Skynet: a forza di combatterla fin da prima che nascesse, ha imparato a conoscerla prima di chiunque altro. Profezia autoavverante. 

Lo stesso Harry Potter. Voldemort si aggira per le case dei maghi uccidendo chiunque al suo passaggio, perché una profezia lo vuole sconfitto da un grande mago del futuro. Incontra Harry, gli procura la cicatrice, gli dona inavvertitamente parte del suo potere. Voldemort crea “il ragazzo che è sopravvissuto”, invera la profezia che credeva di annullare. Si fosse fatto i fatti suoi, nessuno avrebbe potuto sconfiggerlo. Profezia autoavverante.

Il principio di autoconsistenza

Viaggio nel tempo grazie al deep fake
Viaggio nel tempo grazie al deep fake

Perché questa lunga menata – potremmo continuare all’infinito – sulle profezie autoavveranti? Perché hanno a che fare con questo Indiana Jones ed entrambi hanno a loro volta a che fare con una cosa che si chiama Principio di Autoconsistenza di Novikov. È forse l’unica soluzione teorica al paradosso dei viaggi nel tempo. Più o meno afferma che non possiamo cambiare il futuro: al massimo solo replicare proprio quelle azioni che lo invereranno e che noi, viaggiatori nel passato, pensavamo di poter impedire. Il paradosso del nonno: non puoi viaggiare nel passato e ucciderlo, perché altrimenti non saresti nato per viaggiare nel passato e ucciderlo. 

Novikov la risolve così: ti ricordi quell’aneddoto che ti raccontavano da bambino su come tuo nonno e tua nonna si sono conosciuti? Ospedale, lei un’infermiera, lui un paziente in fin di vita dopo un tentato assassinio? Bene, l’assassino sei tu, tornato indietro nel tempo per uccidere tuo nonno, ma complice solo di aver reso possibile quell’insieme di circostanze che, appunto, porteranno alla tua nascita. Per ora ci fermiamo qui, a voi scoprire come tutto questo si colleghi a Indiana Jones 5, noi non lo spoilereremo. Vi basti sapere che è una delle note d’interesse.

I nazisti dell’Illinois

Mads Mikkelsen in Indiana Jones 5
Mads Mikkelsen in Indiana Jones 5

Ora parliamo davvero di Indy. Profezie autoavveranti e principi di autoconsistenza hanno a che fare con Indiana Jones perché lui, in questo quinto capitolo, ha a sua volta a che fare con un reperto archeologico che permetterebbe di viaggiare nel tempo. E laddove c’è una macchina del tempo, c’è la possibilità di cambiare il corso della storia. E laddove succede questo, i nazisti si sfregano le mani

Dopo la parentesi sovietica nel quarto capitolo, Indy ha nuovamente a che fare con i suoi nemici di sempre. Ci risiamo, i nazisti dell’Illinois. Ha a che fare con loro nella scena iniziale, che entra a gamba tesa con una regia di primissimo livello. È quella che si è vista nei trailer: Indy nel passato, a pochi giorni dalla caduta del Terzo Reich, ringiovanito dal tanto odiato deep fake. E invece è uno dei migliori risultati ottenuti finora in questo campo della CGI, tanto da farci quasi rimpiangere di non poter vedere un intero capitolo finale tutto ambientato a Seconda Guerra Mondiale in corso. Sarà il feticcio per questo simil Castello di Wolfenstein a parlare, ma tant’è.

Holbrook, Mikkelsen, Waller-Bridge

Harrison Ford e Phoebe Waller-Bridge
Harrison Ford e Phoebe Waller-Bridge

Ma cosa c’è di peggio di un nazista con una macchina del tempo? Uno scienziato nazista con una macchina del tempo. No, peggio ancora: uno di quegli scienziati nazisti assoldati dalla CIA una volta finita la guerra e che ora, nell’estate del 1969, ha mandato Armstrong, Aldrin e Collins sulla Luna. Altra scena niente male, quella durante la parata organizzata per celebrare l’Allunaggio, con Indy in fuga a cavallo da un imbufalito e ignorantissimo Boyd Holbrook. Che quando fa il brutto scimmione, soprattutto se diretto da James Mangold, non ci dispiace affatto.

Quindi: da combattere i nazisti, Holbrook, la CIA e il cattivo ultimo, il nazista, per cui non si sarebbe potuta fare scelta migliore che quella di Mads Mikkelsen, che infatti fa la sua porca figura. Quella del porco nazista. E poi sì, c’è anche lei, Phoebe Waller-Bridge, che si fa spazio nel compito impossibile di tenere testa a un gigante come Indiana Jones. E dimostra, fra pregi e difetti, quanto sia difficile maneggiare un’eredità di queste dimensioni.

Indiana Jones 5 è James Mangold e John Williams

Una scena di Indiana Jones 5
Una scena di Indiana Jones 5

Indiana Jones e il quadrante del destino deve tutto o moltissimo alle capacità di James Mangold. La regia è di prim’ordine, le scene di inseguimento un piacere per gli occhi. Quando ne finisce una – e ce ne sono molte – passiamo tutto il tempo in attesa della successiva. A contribuire ulteriormente una colonna sonora diffusissima, scritta al millimetro in accompagno a ogni cambio di inquadratura. John Williams compone ancora come un ragazzino e si dimostra l’elemento più giovane, fresco e potente di tutto il film. Non usa a noia il tema classico – che in verità sentiamo molto poco – ma riscrive da zero decine di componimenti inediti.

Regia e musica, musica e regia. Questa la forza di Indiana Jones e il quadrante del destino. Preso singolarmente, ottimo divertissment d’avventura. Ma la pressione della chiusura è tanta, il momento dell’addio pesa. E molto di questa sceneggiatura è votato a raccontare la stanchezza di Indy, le ossa rotte, il “mi fa male tutto“, che in bocca a Harrison Ford suona metatestuale, citazionistico: “Io ne ho viste cose che…

Il momento dei saluti

Appendere frusta e cappello
Appendere frusta e cappello

Il momento dei saluti, si sa, non piace a nessuno. Quel momento in cui si vorrebbe disperatamente dire, semplicemente, au revoir. In quel momento si cercherà di sviare, di evitare quell’altra brutta parola: adieu. Ma quella brutta parola, quando il futuro è già scritto, quando il quadrante del destino ha segnato il suo ultimo rintocco, è importante dirla. Per lasciarsi bene, salutarsi come si deve. Appendere cappello e frusta al chiodo, se tanto non verranno più usati, almeno a sentire Harrison Ford.

È difficile, ci vuole coraggio. Noi, in quel di Cannes, eravamo preparati. Il pubblico è preparato, a dire addio a Indy. Ma ciò che avviene su schermo è sempre figlio, purtroppo o per fortuna, di due volontà: quella di noi che guardiamo e quella di loro, dall’altra parte della cinepresa, che creano. A noi era stato detto di farci trovare preparati. E lo eravamo. Loro, forse, ancora no.

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