Dalíland, la recensione del biopic con Kingsley: si può osare di più

Mettete un paio di baffi a Ben Kingsley e sarà Salvador Dalí. Nel nuovo film di Mary Harron l’attore, celebre per aver interpretato Gandhi, mette in scena l’ultima fase della vita del pittore surrealista per eccellenza. Un biopic non convenzionale, fra vita reale e finzione: una mistificazione che restituisce l’uomo dietro l’artista.
Dalíland, la recensione del biopic con Kingsley: si può osare di più

Ci aspettavamo più Dalí nella terra del pittore evocata dal titolo del nuovo film di Mary Harron, dopo Pshyco e Charlie Says. O forse pensavamo di entrare in ciò che di Dalí siamo più soliti conoscere: i suoi quadri. Dalíland, invece, non ha nulla a che vedere con il mondo surrealistico del pittore spagnolo: lo presenta semplice e vero, fragile ed insicuro pur nella sua mitomania.

Salvador Dalì in Dalíland: “come visto da”…

Il trailer di Dalíland

Dalíland è una lunghissima ripresa in soggettiva libera indiretta, di quelle che Pasolini descriveva con la frase “come visto da“. Salvador Dalí, infatti, è filtrato dagli occhi di James, un giovane stagista presso una galleria d’arte di New York, che diventa l’assistente personale del pittore prima di allestire una sua mostra. Tutto il film è la proiezione di come James percepisce Dalí, la sua vita, la sua arte e anche i suoi ricordi. Addirittura nei flashback della giovinezza del pittore, infatti, notiamo un’artificiosità spiegabile soltanto in questo modo: se il film rappresenta il punto di osservazione di James, James non ha mai visto quelle scene di quarant’anni prima. Per questo sembrano quasi di plastica, perché devono essere immaginate, non attingono a un ricordo reale: sono come James immagina il racconto di Salvador.

James e lo sbarco a Dalíland

Proprio come quando il personaggio di qualche romanzo ottocentesco sbarca su un’isola lontana dal mondo conosciuto, che sembra più un altro pianeta che un territorio inesplorato, così accade a James. Nella terra di Dalí scopre (e noi scopriamo con lui) l’altra faccia della medaglia del genio, come si suol dire in questi casi “l’uomo dietro l’artista“. Ma il film va oltre: non solo l’uomo, bensì l’uomo anziano e la sua decadenza dietro l’artista, il che è diverso. James probabilmente si aspettava un parco giochi, perché ammira Dalí al punto da dire “lavorerei gratis pur di essere il suo assistente“, e questo sembra evocare il titolo del film. Ma è un luna park di quelli abbandonati, con le luci spente, la ruggine sulle giostre e un’atmosfera spettrale.

Per quanto Dalí possa continuare imperterrito a tenere in piedi la propria indole mitomane, noi ci accorgiamo che quell’era è finita. Giovani muse, ispirazioni stravaganti (come far riprodurre sulle tele i migliori sederi di New York, dipingendoli e poi lasciandone lo stampo, perché diventino ali), abiti sfarzosi… ma i baffi sono storti, asimmetrici, non più perfetti. E come il naso di Vitangelo Moscarda di Pirandello, così quell’iconico dettaglio fisico che davanti allo specchio non si tiene più racchiude l’andazzo dell’intera esistenza del pittore.

Una grande assente: la prepotenza della pittura

Salvador Dalì e James nello studio del pittore
Salvador Dalí e James nello studio del pittore

Un film su Dalí che parli dell’uomo e della sua fase terminale, non dell’artista. Va bene. Quindi un film in cui non ci dobbiamo aspettare i quadri surrealisti che hanno reso celebre il pittore. Va bene. Ma almeno la tensione di quei quadri e l’aria che anima la pittura di Dalí – questo sì – nel film doveva esserci. “Mi trasporta con prepotenza nel mondo che sta mostrando. È come un incantesimo“, dice una donna davanti ad un quadro di Dalí alla mostra (che noi spettatori del film non vediamo). Seduti sul velluto del cinema, però, ci viene da risponderle che vorremmo poterlo dire anche noi, guardando lo schermo come lei contempla la tela.

Il massimo grado di compenetrazione fra cinema e film negli ultimi anni probabilmente l’ha raggiunto Loving Vincent, il live-action su Van Gogh girato su scene dipinte. Non volevamo questo, ma neanche l’estremo opposto e la totale assenza delle vibrazioni dell’arte. Soprattutto per la vita di un pittore come Dalí che, col cinema, ha più volte avuto a che fare (primo fra tutti: Un Chien andalou di Luis Buñuel, citato anche in Dalíland), e che nella realtà ha sempre cercato un modo per trascenderla.

Gala in fuga da Dalíland

Gala e Dalì in Dalíland
Gala e Dalì in Dalíland

Se nell’ultima fase della sua vita, quella che il film mistifica, Dalí ha visto entrare nel suo mondo un giovane appassionato, desideroso di diventare suo assistente e cogliere tutti i possibili insegnamenti; qualcuno dalla sua vita ha compiuto un movimento inverso. Si tratta di Gala, sua moglie, interpretata da Barbara Sukowa che in certi casi finisce per oscurare l’imponenza di Ben Kinsgley. Più la donna, Musa con la M maiuscola del pittore, si allontana da Dalí travolta dal fascino per un giovane attore; più Dalí corre verso di lei ad inseguirla.

Senza la mia Gala sarei in un manicomio o sotto un ponte” – dice a James – e fa riferimento ad una certezza della sua vita, senza accorgersi che si tratta di una vita precedente, ormai non più così. Racconta, infatti, che Gala girerebbe tutta Parigi pur di trovare un “giallo Napoli” di cui lui ha bisogno per dipingere. In queste scene emerge tutto il disorientamento di Dalí: nella sua terra, nella sua Dalíland, si è perso. Continua a ripercorrere le strade che l’hanno portato a diventare un mito, che hanno funzionato fino ad ora, anche se ormai sono senza uscita e non lo conducono più ad alcun prestigio.

La collera, o il flamenco di una chitarra classica

Ben Kingsley è Salvador Dalì in Dalíland
Ben Kingsley è Salvador Dalì in Dalíland

Al netto di tutto il film, se c’è una parola che ci viene da associare a Salvador Dalí negli ultimi anni della sua vita non è decadenza, né morte, né solitudine o malattia. È collera. E ancora una volta avremmo voluto che la regista calcasse un po’ di più la mano su questo sentimento elogiato dal pittore.

È la collera che ci rende forti. Le idee fresche sprizzano da un involucro di odio!

Secondo quest’equazione: se la collera avesse animato di più il film, sarebbe stato più fresco. C’è un punto in cui la sentiamo, che vibra, scuote e accende: nel raschiato di una chitarra classica che suona il flamenco, in un crescendo sempre più intenso. Lì diciamo: “ah, che bello”, e quella probabilmente è l’arte. La collera fa fronteggiare a Dalí la morte, nonostante si senta inseguito e braccato; la collera lo spinge a circondarsi ancora di giovani muse nonostante la sua Gala stia scappando; la collera lo trattiene dal sesso così da poterne fare arte; la collera non rende pietoso il suo voyeurismo.

Dopo aver visto Dalíland ci dimenticheremo per un po’ di Adrien Brody in Midnight in Paris, e davanti ad ogni quadro di Dalí ci sembrerà di vedere Ben Kinsgley, su una roccia sopra al mare, che dirige il vento col proprio bastone.

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