Dopo l’omicidio, ecco la cospirazione. Stiamo parlando proprio de La Cospirazione del Cairo, vincitore al Festival di Cannes 2022 per la migliore sceneggiatura. Diretto da Tarik Saleh, regista nato a Stoccolma da genitori egiziani, sceglie di raccontare un mondo fino ad ora mai toccato dalle lenti di alcuna cinepresa: al-Azhar, la più grande Moschea d’Egitto ed il punto di riferimento morale dell’intera sfera islamica, casa del Grande Imam e di una delle più prestigiose Università sunnite.
L’Egitto è avvolto da una cortina nebbiosa, da una situazione oscura a prescindere dalla favola dello “Stato arabo moderato”, in cui la polvere sistematicamente si nasconde sotto il tappeto. Il focus, puntato sulla dimensione religiosa piuttosto che sulle scene prettamente action, rappresenta una vera e propria denuncia contro la dittatura, ormai vagamente travestita da normalità.
La trama de La Cospirazione del Cairo

Il protagonista è Adam (Tawfeek Barhom), un giovane proveniente da un’umile famiglia di pescatori, che un giorno dismette le reti nel Mar Rosso per iniziare gli studi all’Università di al-Azhar, il principale centro di insegnamento dell’islamismo sunnita, costruito intorno alla Moschea omonima. Va detto che al-Azhar è un luogo in sé molto discusso per quanto riguarda il rischio di radicalizzazione: un ragazzo della periferia di Bruxelles lo frequentava e poi andò a farsi esplodere al Bataclan – lo racconta bene Emmanuel Carrère nel libro reportage V13.
Tra minacce e pedinamenti: l’unico obiettivo?
Breve parentesi a parte, come Guglielmo da Baskerville nel Nome della Rosa arriva nell’Abbazia, così il novizio Adam giunge nell’Università, e la prima cosa a cui assiste è la morte del Grande Imam, che si accascia durante una predica. Parte la lotta per la successione: i servizi segreti egiziani si riuniscono per indirizzare l’elezione, trattandosi di una delle cariche maggiori dell’Islam, il piano è di piazzare l’Imam gradito al regime così da ammazzare in fasce il possibile dualismo tra potere politico e religioso e avviare una solida dittatura, a una sola voce. D’altronde, “non ci possono essere due faraoni”.
Adam è avvicinato da una figura misteriosa, il colonnello Ibrahim (un sempre magnifico Fares Fares, attore feticcio del regista), il quale lo assolda come nuova pedina della fazione governativa nell’istituto: lui è appena arrivato dalla provincia, non è nessuno, insospettabile, in più i servizi sanno tutto di lui. Adam è costretto ad accettare.
Si infiltra così nei partiti dei possibili candidati: l’estremista Al-Durani, condensato dell’Islam radicale, e l’illuminato Negm, lo sceicco cieco, che come tutti i non vedenti ha lo sguardo lungo e cita persino Marx al suo auditorio. Il governo di al-Sisi vuole far eleggere un terzo, “un moderato”, ovvero un burattino prono al regime. Adam diventa allora il fulcro di un racconto palpitante, passando da minacce a pedinamenti: unico obiettivo? Portare a casa la pelle.
La lotta eterna tra potere politico e religioso

Confermata la volontà di Tarik Saleh: utilizzare il genere (noir/thriller) per esplorare le contraddizioni e le complessità, soprattutto della situazione politica, dell’Egitto contemporaneo. In questo caso, il regista esplora i meccanismi del potere e la tendenza dei capi militari a non farsi scrupoli per sfruttare e poi sbarazzarsi di innocenti per i loro scopi.
Ciò era già emerso grazie al precedente Omicidio al Cairo, del 2017 – film costato “caro” a Saleh, regista che è stato bandito dal Paese arabo in quanto raccontava pagine spinose che non dovevano essere aperte. Ecco perché La cospirazione del Cairo a dispetto del titolo batte bandiera scandinava ed è ambientato in Turchia, con la Moschea di Solimano utilizzata quale palcoscenico per ricreare la location per l’Università al-Azhar.
Nel passaggio dall’adolescenza all’età adulta, Adam ricerca attraverso i suoi studi universitari una salvezza dello spirito che è sia intellettuale sia religiosa. Pur essendo un adolescente come tanti altri, Adam è il “ragazzo mandato da Dio” (Boy from Heaven è il titolo con cui ha rappresentato la Svezia nella corsa all’Oscar come Miglior film internazionale, mancando la cinquina finale). Anche se nutre gli stessi sogni e si lascia andare alle stesse trasgressioni dei ragazzi della sua età, lo studente dimostra un’eccezionale comprensione del Corano e della predicazione degli Iman.
Una, nessuna e centomila… Verità: La Cospirazione del Cairo

Eccellente il lavoro del direttore della fotografia Pierre Aïm, che valorizza gli spazi imponenti della Moschea, ma anche gli angusti passaggi segreti e le scene corali all’aperto. Un costante sottofondo delle preghiere cantilenanti ed il vociare di centinaia di persone, come una finestra sul passato del paese, accompagna lo spettatore. Un racconto che non risparmia nulla, attaccando sia l’ipocrisia di certi fantomatici precettori – che predicano bene e razzolano male – che il doppio gioco avente luogo tra le stesse forze dell’ordine. Saleh guarda al cinema civile e, contemporaneamente, al giornalismo d’inchiesta che non sempre riescono a integrarsi. Lo sguardo è lucido, la tensione più diluita e, a volte, si disperde.
Nel posto sbagliato al momento sbagliato

Se in Omicidio al Cairo il regista utilizzava il noir per parlare della profonda disillusione circa la “Primavera araba”, qui Saleh allarga lo sguardo, chiamando in causa le istituzioni: senza mezzi termini, senza giri di parole. Senza dubbi. L’ipocrisia regna sovrana, le parole sono puramente retoriche e una scelta libera può costare un rischio incommensurabile.
Nella progressiva discesa infernale cui ci porta la storia, il regista si ferma un attimo prima di mostrare ciò che, nei fatti, accade quando uno è nel posto sbagliato al momento sbagliato o non serve più al sistema che lo ha incastrato: Saleh ci fa vedere le galere dove vengono detenuti i prigionieri politici o quelli che, semplicemente, sono diventati grattacapi per la dittatura, ma decide di non entrare in territori che inquadrino torture e violenze, cui però si allude a più riprese.
La cospirazione del Cairo, ovvero un sano, robusto, film politico “vecchio stile”. Da non perdere, in sala dal 6 aprile, risulta difficile non pensare al caso di Giulio Regeni. E a tutti i sequestrati, torturati, uccisi, in un Paese dove “la Sfinge ha ripreso a sorridere”.