Un anno senza Jean-Luc Godard: 5 film, per cominciare

“Nel cinema francese fu come un’apparizione. Poi ne divenne un maestro”. Era il 13 Settembre dello scorso anno e iniziavamo a parlare di Jean-Luc Godard al passato. Oggi, ad un anno dalla sua morte, ricordando 5 suoi film con cui conoscerlo vorremmo poterne continuare a parlare al tempo presente.
Un anno senza Jean-Luc Godard: 5 film, per cominciare

Non era malato, era solo esausto. È stata una sua decisione e per lui era importante che si sapesse”. Questa la dichiarazione che, il 13 Settembre del 2022, ha accompagnato la notizia della morte del regista Jean-Luc Godard, per mezzo del suicidio assistito. Aveva 91 anni e il suo ultimo film Le livre d’image era stato presentato a Cannes nel 2018, senza la presenza fisica del regista. In quell’occasione, collegato a distanza, aveva ribadito la supremazia dell’immaginazione, contenitore di profonde verità, sulla realtà concreta – come in tutta la sua carriera: “A questa età ho difficoltà a vivere la mia vita, ma ho ancora il coraggio di immaginarla”.

Jean-Luc Godard padre della Nouvelle Vague

Jean-Luc Godard e una macchina da presa per rivoluzionare il cinema
Jean-Luc Godard e una macchina da presa per rivoluzionare il cinema

A proposito di finzione e vita, realtà ed immaginazione, Jean-Luc Godard ha fondato l’intera sua dirompente carriera su un binomio profondissimo: cinema e verità. O meglio, ci avrebbe messo l’accento sulla “e” il maestro. Il cinema, smettendo di essere centrato sulle trame e concentrandosi sullo stile, è verità. E lo è con ancora più possibilità dalla Nouvelle Vague in poi, di cui soprattutto Godard è padre – insieme a François Truffaut, Jacques Rivette, Claude Chabrol ed Éric Rohmer.

Un cinema nuovo

Il cinema, per i fondatori del movimento, si è reso indissolubilmente legato al concetto di verità grazie alla predominanza dell’autore su tutto il resto. L’autore, e quindi il suo stile di regia, ha smesso di essere uno dei tanti elementi compositivi del cinema, diventando la cifra distintiva e rivoluzionaria. Il regista in quanto artista non è più dovuto scomparire dietro alle sceneggiature, alle storie o alle immagini; piuttosto le sue scelte di stile, personali, sono diventate la garanzia della verità nei film. A casa nostra, Pier Paolo Pasolini, lo avrebbe chiamato “cinema di poesia”, per contrapporlo a quello della prosa, tradizionale.

Tutto ciò, alla fine degli anni Cinquanta, suonò completamente disarmonico, di sicuro una nota apparentemente stonata nel modo tradizionale di fare cinema. Col tempo, con la creazione di un vero e proprio movimento e la sempre maggiore comprensione della qualità del nuovo nascente cinema, si è capito che quella stranezza era in realtà rivoluzione. E quel giovane Jean-Luc Godard, insieme a tanti giovani con nuove idee sul cinema (e sul mondo), fu un rivoluzionario.

A partire dal suo manifesto di quella rivoluzione, abbiamo pensato per voi a 5 film da cui cominciare a conoscere Godard e il suo cinema da alcuni dei numerosi punti di vista. Una mini-guida per inesperti – i più amati dal regista, perché veri.

À bout de souffle: Jean-Luc Godard padre della rivoluzione

Jean-Paul Belmondo e Jean Seberg in À bout de souffle
Jean-Paul Belmondo e Jean Seberg in À bout de souffle

Nonostante i primi spunti già nel 1956 e il ‘58 e il riconoscimento della Nouvelle Vague come movimento già nel 1959 con Les Quatre Cents Coups (I quattrocento colpi) di Truffaut e Hiroshima Mon Amour di Resnais; nel 1960 À bout de souffle viene eletto subito a manifesto. Primo lungometraggio di Godard, il film – Fino all’ultimo respiro il titolo italiano – è la storia di Michael (Jean-Paul Belmondo) e Patricia (Jean Seberg). Ma se abbiamo capito bene cosa sia la Nouvelle Vague è molto più della loro storia. E proprio per questo diventa l’emblema del movimento.

In À bout de souffle lo spettatore inizia ad accorgersi di qualcosa che poi sarà ricorrente nella filmografia dell’autore: la macchina da presa. Il regista deve sentirsi sullo schermo, lo spettatore se ne deve accorgere: così la vita vera si tuffa nel cinema, e il cinema nella vita. Perché il cinema non deve manipolare o distorcere, piuttosto riprodurre la realtà, anche aggredendola. Questa è la filosofia del movimento che Jean-Luc Godard incarna col suo film d’esordio, che gli è bastato a riscrivere l’intero linguaggio cinematografico.

La luce neutra delle inquadrature, i jump-cut ovvero alcuni tagli di scene di respiro, il discorso diretto degli attori con la cinepresa, i piani sequenza: sono soltanto alcuni dei dispositivi d’avanguardia con cui Jean-Luc Godard, cominciando con À bout de souffle, rivoluziona il cinema.

Pierrot le fou, cinque anni dopo

L’iconica scena di Pierrot le fou
L’iconica scena di Pierrot le fou

I temi, la trama (e in parte anche gli attori) di Pierrot le fou, del 1965, sono estremamente in continuità con il primo film di Jean-Luc Godard. I protagonisti questa volta si chiamano Ferdinand (ancora Jean-Paul Belmondo) e Marianne (Anna Karina) e all’inizio del film sappiamo essersi conosciuti cinque anni prima: esattamente il tempo fra À bout de souffle e Pierrot le fou (in Italia come Il bandito delle 11).

Ad intensificarsi, a distanza di cinque anni e otto film, è la cifra avanguardistica. Per approfondire la radicalità dell’avanguardia del proprio cinema, Jean-Luc Godard in Pierrot le fou sfrutta al massimo delle sue possibilità il colore. Oltre ad essere ricordato per l’iconica faccia dipinta di Ferdinand, l’uso del colore dà un tono surrealista al film. Tante le citazioni sceniche dall’arte; e ancor di più le scene rese come vere opere d’arte pittoriche, quindi astratte e quasi eccessive.

Estremizzati anche altri due tratti distintivi del cinema godardiano: la frammentarietà, quasi come il film fosse una rapsodia di spezzoni di vario genere giustapposti; poi il gusto del superfluo, perché la scena più trascurabile in Godard diventa evento centrale, lasciando spesso sullo sfondo gli eventi reali e degni di nota – o presunti tali.

Vivre sa vie, il cinema episodico di Jean-Luc Godard

Anna Karina nei 12 episodi di Vivre sa vie
Anna Karina nei 12 episodi di Vivre sa vie

Torniamo indietro nella cronologia, risalendo al 1962 e ad un film in bianco e nero. Si tratta di Vivre sa vie (Questa è la mia vita), dominato da un’incredibile Anna Karina: è tutta la storia di Nana, e di come finirà a fare la prostituta. Questa volta a rendere pittorico e disorganico il film non può essere il colore. Godard ricorre, allora, ad una vera e propria narrazione “per quadri – ispirandosi al cinema italiano, cioè a Rossellini.

Dodici episodi, introdotti da didascalie, rendono il film estremamente frammentato. A renderlo ancora meno fluido si aggiungono i dialoghi artificiosi, propri di Godard, e le riprese ardite (tra cui il piano sequenza).

2 ou 3 choses que je sais d’elle: “lei” chi?

Mariana Vlady diretta da Jean-Luc Godard
Mariana Vlady diretta da Jean-Luc Godard

Giunto al 1967, quindi a distanza ancora di 5 anni dal sopracitato Vivre sa vie, Jean-Luc Godard calca la mano sul versante dell’inchiesta giornalistica e realizza quello che potremmo definire più un reportage costruito sulla finzione.

Il titolo fa pensare ad una donna, in realtà le 2 o 3 cose che so di lei riguardano la città di Parigi e le sue condizioni sociali di vita. L’esistenza della protagonista Juliette, interpretata da Mariana Vlady, è infatti soltanto il pretesto per conoscere Parigi accompagnati da una voce fuori campo che tradisce l’artificio cinematografico per – ancora una volta – svelare la realtà. E la realtà di Parigi è uno dei tratti immancabili nel cinema godardiano, che col suo cinema la Francia l’ha sconvolta e rivoluzionata.

La Chinoise, il Jean-Luc Godard più politico

Il libretto rosso di Mao: simbolo del film di Jean-Luc Godard
Il libretto rosso di Mao: simbolo del film di Jean-Luc Godard

Se questa dev’essere un’infarinata su Godard, è bene che il lettore possa farsi un’idea di tutto Godard. Uno dei sapori più intensi e violenti del regista è quello che, nel 1967, poco prima del fatidico Sessantotto, esprime nel film La cinese. Pur restando asettico e non dimostrando alcuna adesione al pensiero di uno dei suoi personaggi piuttosto che ad un altro, Godard fa il suo film più politico. Soprattutto in un momento in cui la politica stava per esplodere.

La guerra in Vietnam, il Partito comunista francese, il comunismo di Mao, gli studenti e le università, marxismo o leninismo?: sono i temi al centro del film, ma sono anche la ragione della crisi di Godard. Ce lo racconta bene Michel Hazanavicius in Godard Mon Amour, del 2017: il regista di À bout de souffle, con La Chinoise è diventato un incompreso a cui continuavano a chiedere quel film dell’esordio. Da qui inizierà la crisi di Godard, nel maggio Sessantottino, e il grande interrogativo degli artisti: chi è (e chi dovrebbe essere) il mio pubblico?

Noi, con la distanza storica che ci rende capaci di razionalizzare e comprendere, vogliamo non smettere di essere il pubblico di Jean-Luc Godard. Neanche se ormai da un anno non possiamo più sperare in un altro suo film.

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