Partiamo da una premessa: Black Mirror 4 è diverso dalle prime due stagioni. E diverso non significa peggiore. Significa diverso. Dell’ansia costante che trasudava Black Mirror, della consapevolezza di vedere sullo schermo la deriva dei tempi che corrono, è rimasta la bellissima forma. La sostanza in parte. Il prodotto Netflix è pur sempre un gioiello (sia a livello di storie che, soprattutto, a livello tecnico) ma non è più una bomba ad orologeria pronta ad esplodere e a farci scoprire chi siamo e dove stiamo andando a parare.
È da vedere? Certamente sì.
Mette ancora paura? Un po’ meno.
L’episodio 4 della quarta stagione, Hang the DJ, diretto da Tim Van Patten e sceneggiato dal creatore della serie Charlie Brooker, ne riassume piuttosto efficacemente i pregi e i difetti.
In un futuro distopico Frank ed Amy – interpretati da Joe Cole e Georgina Campbell – sono due ragazzi come tanti che vanno a cena insieme ad un ristorante. Il loro incontro, però, non è casuale. Entrambi vivono dentro un Sistema che, tramite un computerino portatile che entrambi chiamano Coach, seleziona i partner con cui doversi frequentare. Senza possibilità di scelta. Un piccolissimo particolare completa il quadro: è il computer stesso a decidere la durata della relazione.
La loro data di scadenza.
E nel caso di Frank ed Amy i due Coach non ammettono repliche: avranno solo dodici ore, da utilizzare per conoscersi come meglio credono. I due, immancabilmente, in quel poco tempo si innamorano. Ma saranno costretti dal Sistema ad avere altre relazioni, più o meno lunghe, quasi esclusivamente deprimenti, con altre persone.
Il tema di Hang the DJ è di sicuro impatto, suscita subito interesse. Il motivo? Alzi la mano chi non ha mai sentito parlare di Tinder. Alzi la mano chi non è alla ricerca della propria anima gemella. Una tematica universale, che tocca tutti e che ha trovato un valido alleato nelle app di dating, che avvisano l’utente del suo tasso di compatibilità con altre persone, come se lo conoscessero nel profondo.
In Hang the DJ il tentativo di impostare delle regole per i sentimenti, che per loro stessa natura sono quanto di più non ordinabile ed incomprensibile possa esistere, è gestito con la forza da un sistema intransigente (1984 di George Orwell, per scomodare il più grande riferimento) in luoghi appositi e in mezzo a gente apatica e silenziosa, eccezion fatta per chi l’anima gemella l’ha già trovata e giura ai presenti, in preda all’emozione, che il Sistema funziona (e questo ci riporta al più recente The Lobster di Yorgos Lanthimos).
In particolar modo è una battuta di Frank all’indirizzo di Amy che ci fa ridere, e probabilmente ridiamo perché siamo consci che è una realtà che ci riguarda e che possiamo vedere ogni notte, in qualunque pub e in qualunque discoteca. Ad un certo punto il ragazzo esclama, dopo un tentennamento: “Noi due siamo davvero una bella… squadra!”
Non coppia, no. Squadra. Questo perché la ricerca dell’anima gemella non è figlia del destino o del caso, o di un reale interesse che spinge ad uno strenuo corteggiamento, come magari soleva essere ai tempi.
Nel futuro distopico altro non è che una questione sportiva.
Ci si allena con più partner possibili – magari passando subito al sesso, in modo da fare realmente attività fisica – così facendo il computer viene a conoscere ciò che all’utente piace o non piace, le informazioni vengono immagazzinate e poi, magari, la prossima volta andrà meglio. Non si sa bene quando, non si sa bene con chi. Lo stesso computer – guarda caso – viene chiamato Coach, il proprio allenatore in questo immersivo addestramento, che diventa un lavoro full time e che non lascia altro che dati e tempo perso, o perché passa troppo in fretta (con chi magari potrebbe funzionare) o perché non vuole saperne di passare (con i partner più sbagliati, ovviamente).
L’anima gemella è solo il traguardo di una corsa sfiancante. O, forse, ci convinciamo che la nostra anima gemella sia chi arriva quando siamo ormai troppo stanchi per ribattere.
È questa la grande verità che realizza Amy, e che noi realizziamo con lei. Perché ben presto tutto diventa meccanico e privo di qualunque emozione. Soprattutto quando il computer, come se fosse un gioco, comincia ad assegnarle soltanto appuntamenti della durata di 36 ore: “L’altra settimana ero con uno di cui non mi ricordo niente, solo i capelli!” – dice, ridendo, la donna.
Anche se in realtà c’è ben poco da ridere.
In conclusione, Hang the DJ, è una puntata di ottima fattura, la cui storia è sicuramente coinvolgente ed in gran parte lo deve alla propria attualità. La struttura stessa di Black Mirror, trasformata in uno switch da manuale di sceneggiatura, colpisce nel segno, specie agli occhi di chi adora questa serie ed i suoi colpi di scena. Forse un più profondo sviluppo dei personaggi avrebbe consentito una maggiore immedesimazione, visto che si parla d’amore.
L’unico principale difetto, a mio avviso, è che l’ansia di Black Mirror viene mantenuta solo dai toni freddi della fotografia, solo dall’atmosfera che si respira in questo luogo in cui si stabilisce chi incontrerai e per quanto tempo. Ma non viene mai portata agli estremi. Il punto è proprio questo: Black Mirror non estremizza più. Non è più il fiume in piena in grado di travolgere la nostra realtà quotidiana.
La racconta e la racconta bene. Ma non la sconvolge.
Addirittura prova a renderci speranzosi, prova a farci tifare nell’amore più forte delle costrizioni, più forte di tutto e di tutti. Mentre magari tra gli stessi spettatori c’è qualcuno che, una volta spenta la televisione, esce di casa, apre sullo smartphone un’app di dating e riprende il suo personalissimo addestramento.
Leggi anche Black Mirror 4, recensione episodio 1: USS Callister