The House that Jack Built: un viaggio attraverso la visione di Lars Von Trier. La Recensione

The House that Jack Built è un film in cui la violenza più efferata si stempera nella retorica dell’Arte e in un fornito repertorio di citazioni colte. In bilico tra genio e follia, ci muoviamo attraverso l’oltretomba della cupa visione di Lars Von Trier.

The House That Jack Built, i character poster del nuovo film di Lars Von Trier

Il controverso regista danese Lars Von Trier torna al cinema con The House that Jack Built, un film che non risparmia alcuna efferatezza al suo pubblico e induce a chiedersi quali siano i limiti che il cinema non può ancora travalicare.

Il cinema di Von Trier è da sempre il manifesto del più freddo cinismo: la sua, è la telecamera a mano che vacilla esaltando il turbamento dei suoi protagonisti, mentre egli mette in scena il crollo impietoso di ogni speranza, sogno o desiderio.

The House that Jack Built

The House that Jack Built è il film con cui il “non gradito” regista rimette piede a Cannes, dopo esserne stato bandito sette anni fa a causa di alcune dichiarazioni antisemite e filonaziste che indignarono l’opinione pubblica.

Ma persino quell’episodio è fondamentale per la comprensione di questo ultimo lavoro: poiché in quell’occasione manifestò, non soltanto un sentimento di empatia nei confronti di Aldolf Hitler, ma anche apprezzamento nei confronti del grande architetto del nazismo: Albert Speer (1905 – 1981) che, in The House that Jack Built, viene elogiato per la sua capacità di concepire architetture che riecheggiassero la grandezza della classicità nonché la reverenza ispirata dalle rovine.

The House that Jack Built

The House that Jack Built, che ad un livello letterale mette in scena la storia di Jack lo Squartatore e dei suoi efferati omicidi, non è altro che una retrospettiva sul cinema di Lars Von Trier: non soltanto perché in essi appaiono alcuni riconoscibili fotogrammi dei suoi lavori precedenti, ma poiché la struttura stessa del film è imbevuta di quegli elementi che dagli esordi hanno caratterizzato il cinema del regista svedese.

Il chirurgico realismo, la sobrietà essenziale delle sue ambientazioni che ha in Dogville la sua estrema esemplificazione e la dialettica degli opposti: il bello e il sublime, la scienza e la follia, la velleità del sogno e il cinismo della verità,l’ordine e il caos.

Suprema sintesi di queste contraddizioni è l’Arte, che tutto comprende e tutto sorvola, dimentica di tutti quei limiti posticci che appartengono non all’umanità in senso stretto, ma alla sua cultura: come la morale, il pudore, il senso comune di “decenza”.

Limiti con i quali si è spesso scontrato il Regista che, come Jack, ha ammesso “Io uccido”.

The House that Jack Built

Era il 2007 e, in occasione della 60esima edizione del festival di Cannes, Lars Von Trier fu tra i registi invitati a girare un cortometraggio nel quale esporre la propria idea di Cinema.

Il cortometraggio vedeva lo stesso regista danese assistere alla prima di un suo film durante il festival francese, continuamente disturbato da un rumoroso americano che in fine, rivolgendosi al regista, chiede: “Lei che lavoro fa?”.

“Io uccido”, è l’iconica risposta di Von Trier che uccide l’americano insolente a colpi d’ascia, prima di tornare alla visione indisturbata del film.

The House that Jack Built

Lars Von Trier uccide e non ha remore di farlo. Ciò che uccide sono le sovrastrutture, il pudore, la morale comune. Ciò che resta e ciò che costringe dentro l’inquadratura è la verità del corpo, la verità della bestialità insita nell’uomo che ad oggi è artificiosa quanto la sua costumazione.

Per questa ragione, la ricerca artistica del regista è una ricerca di Body Art, poiché essa non lesina di cercare la bellezza nella più cruda e meschina verità del corpo, facendone linguaggio, espressione suprema. Egli imbraccia la sua tremante camera a mano e si avvicina, indugia a lungo sui volti dei suoi protagonisti, nell’intento di cogliere l’istante perfetto in cui una qualche improvvisa forma di umanità genuina si paleserà sul volto dell’uomo.

In The House of Jack Built egli racconta il suo travagliato percorso artistico, la sua carriera di cineasta, attraverso la meticolosa ricerca artistica di Matt Dillon: l’ingegnere che avrebbe voluto saper scrivere la musica.

The House that Jack Built

Il film è strutturato come un dialogo tra Jack (Matt Dillon) e Verge (Bruno Ganz). Inizialmente pensiamo che Jack, il geniale e raffinato assassino, sia a colloquio con uno psichiatra in un qualche manicomio criminale che, la nostra moralità offesa, troverebbe adeguato.

Distinti in “5 incidenti e un epilogo”, Jack racconta i suoi crimini con lucidità e candore, non risparmiando colti paralleli tra la sua personale ricerca “artistica” e le altrui opere d’arte. Poiché Jack è un ingegnere che in cuor suo sente di essere un architetto, un artista, qualcuno in grado di costruire la casa dei suoi sogni ma, mentre il progetto della casa perfetta langue tra costruzioni e demolizioni, la morte sembra essere diventata la sua catarsi. I suoi omicidi, infatti, progressivamente abbandonano il carattere istintuale che ha caratterizzato il primo e diventano vere e proprie sperimentazioni sul corpo, sulle emozioni come la paura, l’amore, la solidarietà, costruzioni e decostruzioni, sapienti manipolazioni scientifiche.

La Casa perfetta, infatti, troverà edificazione soltanto quando Jack comprenderà di poter essere soltanto un ingegnere al cospetto dei mattoni e un artista nella manipolazione della morte.

The House that Jack Built

La frammentazione dell’identità è una chiave di lettura fondamentale di questo film in cui, Lars Von Trier, si comporta come Oscar Wilde ne Il Ritratto di Dorian Gray: così come la personalità di Wilde si scinde nel cinismo di Lord Henry, nella passione distruttiva di Dorian e nella dolce saggezza di Basil, allo stesso modo Von Trier è nella geniale follia di Jack e nella lucida capacità di ascolto e analisi di Verge, le cui osservazioni lapidarie e talvolta caustiche non hanno mai un intento moralizzante.

é carina la tua casa, Jack”.

Risulta chiaro, d’altra parte, come Verge non sia altri che Virgilio il poeta latino venuto prima di Cristo e, per questo, benedetto da una visione non contaminata dal messaggio cristiano. Virgilio condusse Dante attraverso l’Inferno e così, Jack si ammanta di rosso e compie lo stesso viaggio del poeta.

La costruzione dell’oltretomba Vontrieriano si stacca nettamente dalla essenzialità chirurgica delle sue ambientazioni, per concedersi la ridondanza e gli eccessi di una Pittura Simbolista che ricorda le opere dell’artista italiano Roberto Ferri.

The House that Jack Built

Così come Dante Alighieri prima di lui, anche Jack è ammaliato dalla luce e desidera un assoluzione che nell’universo velleitario di Lars Von Trier non potrà raggiungere.

Ma non c’è moralismo in questa condanna: non saranno infatti le colpe di Jack a decretare il fallimento della sua impresa, ma soltanto la sua umana fragilità soggetta ai capricci di una realtà cinica e crudele.

Jack infatti, il carnefice, la tigre, è a sua volta l’agnello in una visione pessimistica che fa dell’uomo una formica schiacciata da forze più grandi e più crudeli di quanto lui possa mai essere.

The House that Jack Built

L’ultimo lavoro di Lars Von Trier, The House that Jack Built è suscettibile di diverse letture: da una parte troviamo la retrospettiva sulla carriera del regista, dall’altra il freddo racconto della dialettica tra La tigre e l’agnello, così come esposta nel celebre componimento di William Blake. Nella verticalità del confronto sociale tra la vittima e il carnefice, Lars Von Trier propone una realtà orizzontale, in cui l’uomo è poco più di un involucro di carne destinato alla putrefazione e vestito di sogni irrealizzabili.

Poiché l’uomo, nella cupa visione di del regista, non è nulla: ma la sua umanità, cruda e spudorata è Arte ed è eternità.

Tigre! Tigre! Ardente e luminosa, 
nella foresta della notte,
Quale mano o occhio immortale
poté forgiare alla tua spaventosa simmetria?

In quali distanti profondità o cieli
bruciò il fuoco dei tuoi occhi?
Su quali ali osa egli librarsi?
Quale mano osa afferrare il fuoco?
                                 (William Blake)
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