Se la strada potesse parlare, la recensione del film di Barry Jenkins

Negli anni ’70, nel quartiere di Harlem, la diciannovenne Tish aspetta un bambino dal suo grande amore Fonny. Il problema, però, è che Fonny è stato arrestato: complice un cattivo poliziotto bianco, il ragazzo è dietro alle sbarre per un presunto stupro che non ha commesso. Il rapporto fra i ragazzi è costretto procedere con un vetro a dividerli. Barry Jenkins porta sullo schermo l’adattamento del romanzo di James Baldwin, Se la strada potesse parlare. Dopo Moonlight, vincitore del premio Oscar nel 2017, il regista torna a raccontare una storia di deboli minoranze e grandi amori, avvalendosi di un impatto visivo potente e magnetico. Stavolta è l’amore ai tempi del razzismo che deve vincere.

Se la strada potesse parlare

Se la strada potesse parlare è un’opera d’orgoglio Afro-Americano. Il film conferma il talento di un autore che vede le cose in maniera unica, difficile da trovare altrove, sebbene il film non riesca a mantenere la stessa presa emotiva per tutto il corso della storia. Così come in Moonlight, Jenkins utilizza continui primissimi piani frontali, raccordi di sguardi intensi, musiche enfatiche e drammatiche che si alzano a valorizzarli. E poi musica soul a fare la giusta atmosfera. Uno stile interessante, che rischia tuttavia di risultare un po’ forzato e prevedibile poiché ripetuto continuamente. È chiaro che dietro agli sguardi – e ottime interpretazioni, in primis quella di  Regina King nei panni della madre di Tish – si nasconda un trauma incancellabile e intrinseco nella vita dei personaggi. Un’informazione presente fin dalla nascita nell’inconscio dei neri, dei poveri, nati e cresciuti in quel contesto storico. Questi occhi raccontano anche la purezza dell’amore, dell’ingenuità di chi lo vive. Tish e Fonny, a modo loro, hanno già vinto per questo. Tecnicamente, però, il potere li vede sconfitti; il sistema legislativo, la possibilità di decidere il proprio destino e gli strumenti per lottare non sono in mano loro. Sono vittime di un trucco. Questa è la retorica, la morale legittimamente espressa da Barry Jenkins.

Anche se stavolta non parliamo di un film diviso in tre macro-sequenze, resta evidente come l’autore ami raccontare le storie suddividendole in frammenti e salti temporali. Questa mancanza di continuità porta a un racconto condito da alti e bassi: non sempre risulta efficace. Il regista ci invita a concentrarci sui dettagli, alcuni fondamentali,  e altri che solo restano accennati e dal messaggio poco chiaro. La passione per la scultura di Fonny, ad esempio. Da immagini incredibilmente poetiche e momenti di grande tensione drammatica – e qui c’è la qualità di scrittura, oltre che di regia – si passa a fasi di stanca la cui poesia, sempre presente, non può bastare a giustificare abbassamenti di ritmo di un certo livello. Dopo Moonlight, che riesce invece a non inciampare mai – nonostante anche lì a volte stia veramente al limite – Se la strada potesse parlare alterna momenti estremamente coinvolgenti ad altri con meno mordente. Il messaggio d’amore che contrasta il razzismo, tuttavia, è quanto di più potente ed efficace si possa desiderare di questi tempi. Non può lasciare indifferenti.

Leggi anche il nostro commento su Moonlight, vincitore del premio Oscar per il miglior film nel 2017.

 

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