Due sono i grandi misteri dell’uomo: il Sé e l’Altro. Poiché mai del tutto conoscibili, entrambi possono atterrire. Il Sé è quello che intimamente siamo, compreso ciò che potremmo ma non vogliamo essere. L’Altro, invece, è per definizione qualcos’altro da noi, e in quanto tale minaccioso portatore di una diversità. Non ci deve allora sorprendere che dall’incontro tra queste due estraneità nasca uno dei più fecondi topoi della narrativa, quello del Doppio. Il giovane William Wilson terrorizzato nel vedere nel buio il proprio volto in quello del suo omonimo rivale, il Goljadkin maggiore perseguitato, denigrato e infine annientato dal Goljadkin minore, l’animo più oscuro e celato di Jekyll reificato in Hyde: cosa può inquietare più di trovarsi faccia a faccia con qualcuno che è eppure non è noi stessi?
In Noi (appunto) una famiglia precipita in quest’incubo, quando davanti alla porta della casa delle vacanze appare, armata, un’altra famiglia, quattro Doppi che compongono un altro “Noi”, alternativo, spaventoso, pericoloso. In Freud il Doppio è il rimosso dell’individuo, che tanto rifiuta una parte di sé da proiettarla all’esterno, e al suo secondo film Jordan Peele moltiplica il tema del Doppelgänger fino alla fondazione di una distopia dove il rimosso non è individuale ma collettivo e nazionale: l’Us del titolo originale è sì “Noi”, ma anche “United States”. Lo confessa l’altra Adelaide, rispondendo alla domanda su chi essi siano: “Siamo americani”.
Già in Get Out – Scappa Peele raccontava gli Stati Uniti, e in Noi avviene lo stesso, anche se il discorso è più generico e meno esplicito. Get Out denunciava l’ipocrisia di un paese capace di eleggere prima Obama e Trump poi, Noi è allude al livore che vive (letteralmente) sotto quel paese, pronto a emergere e a travolgerlo.
Il primo ad affrontare in modo serio ed esaustivo il Doppio come motivo artistico e psicologico fu, nel 1914, Otto Rank, in Der Doppelgänger. Allievo di Freud, Rank legge il mito del Doppio a partire dal disturbo narcisistico di personalità, cioè come un’egoistica tensione d’amore verso se stessi. Incapace d’amare altri e altro all’infuori di sé, l’individuo si sdoppia per poter amarsi nell’altro. Il Doppio emerge dove dimora l’egoismo, dunque.
La famiglia di Noi sembrerebbe scevra da questo vizio: genitori amorevoli e figli beneducati, tutti assieme in vacanza, dove i piccoli, inevitabili attriti vengono risolti con facilità e buonsenso. Eppure Peele con una mano quasi invisibile dissemina il film di sottilissimi indizi su come anche in questo idilliaco ritratto familiare si annidi una punta di invidia, anticamera dell’egoismo, a sua volta portatore di rovina. I Wilson, neri borghesi, sono un po’ gelosi dei Tyler, gli amici bianchi e più borghesi di loro. È una gelosia ancora giocosa, di certo innocua, ma negli US, la patria dell’individualismo eletto a filosofia di vita, è un frammento di tante gelosie innocue e giocose che tutte assieme compongono un tessuto sociale dove può germogliare un egoismo assoluto e potenzialmente esiziale.
I Wilson si fanno la barca perché vogliono primeggiare sui Tyler, gli altri Wilson vogliono qualcosa di molto più grande e maligno. I due desideri, lontani tra loro, non sono però estranei l’uno all’altro, anzi. Quella perdonabile vanità rivela la possibilità di innumerevoli bramosie egoistiche, per le quali si può essere disposti a tutto. È una rivelazione della psiche dell’individuo, che con due sole parole, però, quel “Siamo americani” di primo acchito solo ironico, preannuncia un’apertura al politico a cui Peele, memore di Get Out, arriva inevitabilmente. Ecco, il tema del Doppelgänger si moltiplica, e si moltiplica oltre i confini della singola famiglia, abbracciando gli Stati Uniti, forse il mondo.
Così è duplice la natura dei Doppi di Noi. Come in Freud nascono dalla proiezione di un rimosso, come in Rank da un parossistico amore di sé. Duplici, quindi contraddittori, elusivi, inafferrabili; questo angosciante paradosso emerge dalla trama stessa, finale compreso, quando la morte, elemento costante nella narrativa sul Doppio, fa emergere l’ultima e più terribile assurdità del rapporto con l’Altro Sé, l’uccisione del Sé nell’Altro.
I riferimenti cinematografici di Peele sono tanti, e molto alti: c’è George Romero, c’è John Carpenter, Roman Polański, Don Siegel, pure Hitchcock e Kubrick, senza voler nominare gli innumerevoli registi che hanno affrontato il tema del Doppio. Rispetto ai nomi qui citati, Peele, che pure con solo due film si è già affermato come uno degli autori più validi del recente cinema statunitense, è meno solido. In Noi non ci sono buchi di trama né errori, anzi, tutto torna alla perfezione come di rado accade nei thriller e negli horror. Ma dell’intreccio un po’ troppi dettagli sono taciuti, e se il rifiuto di eccessive spiegazioni è da lodare, allo spettatore è richiesto di tenere sempre viva la propria sospensione dell’incredulità se vuole accettare certi snodi narrativi mai chiariti.
Per fortuna, ci si riesce con facilità. Jordan Peele è un autore raffinato, e l’imponente impianto simbolico del suo film si regge su una sottile rete di dettagli e spunti capace di restituire al Doppio la carica perturbante che gli è propria. La mancanza di appigli certi, di risposte esaustive, di metafore troppo esplicite, permettono al pubblico, mentre viene strangolato dalla tensione, di riempire Noi con la propria lettura, o con le proprie letture. Non come quei film in cui un finale aperto permette di discutere su cosa avvenga immediatamente dopo i titoli di coda (espediente facile, solo a volte funzionale), perché è il film stesso a essere aperto, dall’inizio alla fine (forse oltre, ma non è così rilevante).
Qui abbiamo proposto una possibile interpretazione. Prima di essa c’è però l’esperienza emotiva, intensissima e angosciosa, del trovarsi innanzi al doppio mistero del Sé e dell’Altro. In questo Noi si qualifica come horror. Nella pletora di letture possibili come grande film.
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