Quello che non so di lei: la recensione del nuovo film di Roman Polański

Roman Polański è indubbiamente una delle figure più discusse degli ultimi anni. Davanti a un autore come lui, difficilmente si riesce a scindere il giudizio tra la sua vita personale e la sua opera. In questi ultimi mesi, nell’immenso calderone mediatico che ha coinvolto Hollywood, il suo nome è tornato alla ribalta. Tralasciando la questione accuse e imputazioni, non si può certamente negare come la sua carriera cinquantennale, abbia recato valore al cinema europeo e internazionale. Film come L’inquilino del terzo piano, Rosemary’s Baby e Chinatown, sono stati delle leve motrici nel riassetto del genere cinematografico, dall’horror al thriller passando per il noir. Il regista polacco ha spesso usato l’irresistibile mondo della finzione, per raccontare storie tangibili quanto metafisiche, al limite dell’assurdo, intrise di sue personali visioni e ossessioni. Perché dietro ogni suo protagonista, troviamo sempre una parte del medesimo Polański. Una sorta di continua biografia in via di scrittura, dove mette a nudo se stesso, il suo io, davanti l’occhio voyeuristico dello spettatore cinefilo e abituale.

Polański

Se in Venere in Pelliccia usava il romanzo di Leopol von Sacher-Masoch e il regista teatrale Thomas, interpretato da un incredibilmente somigliante Mathieu Amalric, come uno specchio della propria persona, in Quello che non so di lei (D’après une histoire vraie), si trasfigura invece nella scrittrice Delphine Dayrieux, interpretata dall’attrice francese Emmanuelle Seigner, nonché sua moglie nella vita privata. Un continuo gioco perverso di myse en abyme, dove si intrecciano personificazioni, romanzi, ossessioni personali e le strutture del cinema. La protagonista Delphine è una scrittrice di successo, alquanto spossata mentalmente, che vive il classico blocco dello scrittore. La sua fama, il dover sempre apparire impeccabile di fronte ai suoi editori e lettori, sono portatori di grande crisi nel proprio processo creativo e nella propria stabilità mentale. Complici anche i rapporti freddi e distaccati con i propri figli e con il suo compagno François, un celebre presentatore televisivo di un programma letterario. Tutto sembra crollarle addosso, quando incontrala la ghostwriter Elle (Eva Green), una donna misteriosa e sensuale, sua ammiratrice, con cui inizia un rapporto singolare al limite del consueto.

Polański

Polański riadatta insieme al regista Olivier Assayas, il romanzo omonimo della scrittrice francese Delphine de Vigan, proponendo un thriller psicologico classico ed elegante, ma non propriamente carico d’intensità. Non possiamo infatti paragonarlo ai suoi due film precedenti, caratterizzati da dialoghi frenetici e magistrali, che trascinavano lo spettatore completamente nel microspazio da lui accuratamente costruito. Qui sembra essere tutto eccessivamente formalizzato, dalla fotografia fredda e irreale, alla recitazione quasi grottesca delle due protagoniste. Un Polański minore rispetto a quello a cui siamo abituati, tanto più se recitato da due attrici del calibro di Eva Green e Emanuelle Seigner. Anche la trama, con i suoi risvolti decisivi, non allude a niente di nuovo, ma percorre la linea del prevedibile e del ‘già visto’.

Polański

Guardandolo però nel profondo, non possiamo non accorgerci di quanto dietro al suo essere aleatorio, con questo film Polański ci racconta ulteriormente di sé. La profonda crisi vissuta da Delphine, il doversi confrontare con un’altra scrittrice più giovane, aitante e sagace, le continue minacce anonime che riceve, sembrano rappresentare il sentimento del regista provato al (quasi) culmine della sua carriera. Arrivato a 84 anni, con una carriera composta da film indimenticabili quanto criticati e ritenuti controversi, il regista polacco sembra aver trovato nel romanzo della de Vigan, una sorta di parafrasi allegorica del suo vissuto e della sua opera. In Quello che non so di lei, tornano le tematiche che caratterizzano il suo cinema, tutte le sue ossessioni ricorrenti, i personaggi borderline tra bene e male, ma tra tutte queste istanze, si evince sicuramente quella di uomo stanco dietro la macchina da presa, messo costantemente sotto attacco dall’establishment cinematografico. Allo stesso modo, Delphine non dovrà combattere contro i suoi fantasmi, ma riuscirci a convivere, cedendo alle nefandezze della sua vita, che assiduamente l’accompagnano nel suo percorso. Un Polański giù di tono dunque, fiacco come la sua protagonista, che proprio per questo appare più interessante agli occhi affettuosi del suo pubblico abituale, piuttosto che a quelli di uno spettatore comune. È proprio la connessione tra la vita del regista e la sua opera che rende il film degno di essere visto, perché anche se nella narrazione sono presenti evidenti segni di stanchezza, sarà la stanchezza di un grande regista.

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