Il capolavoro di Park Chan-wook rimane il suo film più vero, duro, violento ed esistenziale. Torniamo ad anlizzare allora Old Boy.
La Trilogia della Vendetta ebbe inizio nel 2002. Mr. Vendetta, il primo capitolo (di cui abbiamo parlato qui), fu una dichiarazione di intenti attraverso cui Park Chan-wook si fece conoscere dal mondo cinematografico intero e pose le basi per un futuro successo. Ai tempi, tutti si aspettavano un grande film dal regista, sembrava scontato che il seguito di Mr. Vendetta sarebbe stato un’evoluzione nello stile, negli intenti e nella poetica. Quello che nessuno si aspettava, è che a distanza di appena un anno (Old Boy è del 2003) Park Chan-wook avrebbe realizzato un capolavoro assoluto dallo stile unico, che non trova eguali nel panorama cinematografico degli ultimi vent’anni almeno.
Old Boy è lo straordinario risultato di uno spirito impetuoso che ha rovesciato nella pellicola un insieme di spunti travolgenti, che colpiscono nel profondo, scavando nella superficie per arrivare al nucleo. La vendetta, ancora una volta protagonista indiscussa della pellicola, è accompagnata tuttavia da un insieme di emozioni altrettanto fondamentali: amore, rabbia, disperazione, coraggio. Come un prisma che riflette le varie componenti della luce, così Old Boy frammenta un singolo impulso in tante schegge che rimangono separate, salvo poi riunirsi alla fine per ricongiungersi alla totalità di una poetica unica e coerente.
L’inizio della pellicola è già una lezione di cinema. In dieci minuti Park Chan-wook ci restituisce il senso di un’esistenza spezzata, adottando uno stile versatile e mutevole (come farà nel resto della pellicola) che caratterizza il protagonista rivelandone le due anime. Oh Dae-su è un ubriacone, stravagante e molesto ma tutto sommato allegro e simpatico. Ha con sé una busta contenente il regalo per la figlia: un paio di ali da angelo, che non vede l’ora di portarle. Quando Dae-su esce per fare una telefonata proprio alla figlia, scompare nel nulla.
Lo troviamo profondamente cambiato, in una stanza ordinaria, intento a guardare il quadro di un uomo che sorride in modo ambiguo, con una scritta che dice:
“Ridi, e il mondo riderà con te; piangi, e piangerai da solo”.
In pochissimo tempo, il confronto tra il Dae-su di prima e il nuovo Dae-su è già evidente. L’uomo che entra nella stanza e l’uomo che ne uscirà dopo 15 anni sono due persone completamente diverse. Un cambiamento che avviene lentamente nel corso degli anni ma che diventa sempre più radicale col passare del tempo.
La prigionia di Dae-su è costruita su un sistema visivo che, grazie anche all’impeccabile recitazione di Choi Min-sik, coinvolge lo spettatore e lo rende partecipe delle sensazioni spiacevoli del protagonista, la cui compagnia è quasi esclusivamente composta dal televisore e dal carceriere che gli consegna i pasti: sempre ravioli fritti. Dopo 15 anni, nel momento in cui aveva quasi completato un buco nel muro che gli avrebbe permesso di scappare, Dae-su viene liberato.
Appena fuori, ci rendiamo subito conto della rivoluzione interna che ha coinvolto il protagonista. Sul tetto su cui si risveglia, incontro un uomo che ha intenzione di suicidarsi, e lo salva solo per raccontargli la propria storia.
“Signore, sebbene io sappia di essere peggio di una bestia, non crede che abbia anch’io il diritto di vivere?”
Dopo essere sceso dal palazzo, avendo lasciato l’uomo lì senza dare anche a lui la possibilità di raccontare la sua storia, nel momento in cui quest’ultimo si suicida causando un rumore dovuto all’impatto con un macchina che Dae-su sente chiaramente, il protagonista non si gira. La morte dell’uomo lo lascia completamente indifferente. Compassione, pietà, empatia, queste emozioni che all’inizio della pellicola Dae-su riusciva a dimostrare, ora non gli appartengono più. La vendetta ne ha preso il posto.
Old Boy prosegue con i tentativi di Dae-su di rintracciare l’uomo che lo ha imprigionato. Nella sua ricerca incontra Mi-do, e tra i due nasce una relazione amorosa. Nel frattempo, l’uomo si fa vivo, gioca con la sua vittima, lo invita a cercarlo e gli fornisce anche degli indizi.
Park Chan-wook è abile nello sviluppare una trama che attraverso il mistero ci tiene incollati allo schermo, condividiamo l’ansia di Dae-su di scoprire la verità, ne siamo partecipi e la facciamo nostra. Le cose che sappiamo noi sono le stesse che sa il protagonista, nulla di più e nulla di meno. Inoltre Woo-jin: il villain, l’uomo che ha imprigionato Dae-su e che continua a giocare con lui, è un personaggio molto interessante.
I due sembrano legati da un rapporto particolare, non sono solo vittima e carnefice, intuiamo che c’è di più. Woo-jin continuerà per tutto il film a tormentare Dae-su, fino a che quest’ultimo non arriverà alla verità, ma di questo parleremo più avanti.
“Quindici anni di allenamento immaginario possono essere d’aiuto nella vita reale? Certo che possono.”
La violenza è un altro dei temi della pellicola. Come nel precedente Mr. Vendetta, anche in Old Boy essa non è mai immotivata, la sua esplosione ha origine da uno scopo. Dae-su è costretto ad utilizzarla nel momento in cui non ha più niente. Sua moglie è morta, scopre che la figlia non abita più in Corea, ha perso 15 anni di vita. Non avendo nulla da perdere, il protagonista può dedicarsi alla ricerca della verità (e della vendetta), travolgendo chiunque tenti di fermarlo.
Forte dell’addestramento, sia fisico che mentale, dovuto alla prigionia, Dae-su esce indurito, orgoglioso, arrabbiato. Il modo in cui usa la violenza non è solo sorprendente in quanto improvviso, ma è anche un modo che consente al regista di metterla in scena attraverso una ricerca formale che riguarda la composizione dell’inquadratura e la mobilità della macchina da presa.
A tale proposito è necessario citare una delle scene registicamente più riuscite dell’intera pellicola: il combattimento nel corridoio. Qui la macchina da presa si muove lentamente utilizzando una carrellata laterale che abbraccia in orizzontale la totalità della scena. Dae-su si muove lateralmente, combatte contro un’orda di nemici armati di mazze e spranghe, e in tutto questo il regista non perde mai il controllo della scena così come il cast che riesce ad eseguire un’azione coreografata complessa e ripetuta.
Tornando alla vendetta (e alla violenza che ne consegue), dicevamo che essa è l’unica soluzione per chi non ha più nulla. E’ qualcosa che regala uno scopo a chi non ha più motivi per vivere, ed è ciò che serve a Dae-su per trovare una tranquillità perlomeno apparente. Perché questa volta la vendetta non rappresenta una soluzione, ed è ciò che il protagonista non riesce a comprendere se non alla fine.
“Te lo ripeto, vendicarsi fa bene alla salute. Ma… che succede una volta che ti sei vendicato? Scommetto che il dolore tornerà a cercarti.”
Ciò che manca ad entrambi i personaggi è un sentimento necessario quanto banale: l’amore inteso in senso lato, in quanto empatia per gli altri esseri umani, per se stessi, per la famiglia; e in senso stretto, in quanto sentimento amoroso vero e proprio verso una donna.
Quando Dae-su esce dalla prigionia è solo, così come Woo-jin. Il primo ha perso la moglie, il secondo ha perso la sorella di cui era anche innamorato. Tuttavia nel corso della pellicola le traiettorie dei due si allontanano progressivamente a causa dell’incontro di Dae-su con Mi-do. La donna che lavora in un ristorante di sushi e che lo porta a casa sua senza conoscerlo. Tra i due inizia una relazione che sarà un altro dei tasselli che andranno a comporre il puzzle finale di cui diremo più avanti.
La regia di Old Boy è un’evoluzione della nuda formalità di Mr. Vendetta. Se il primo film della trilogia era caratterizzato da una composizione rigida e attenta, che prediligeva la macchina ferma in favore del movimento dei personaggi, Old Boy ha uno stile particolare e diverso. La composizione fa spazio al movimento, la coerenza all’ecletticità. Durante tutta la pellicola Park Chan-wook cambia continuamente riferimenti visivi, lasciando qua e là degli elementi di coerenza che si presentano saltuariamente ma in modo connesso.
Ad esempio la transizione con l’orologio che indica l’ora oppure i dettagli sul viso di Dae-su o su quello di Mi-do. Accanto a questi frammenti ci sono un insieme di scene costruite in maniera unica, tutte diverse fra di loro ma comunque coese attraverso una poetica comune che le attraversa. Della scena del corridoio abbiamo già parlato, ma ce n’è un’altra unica per la sua capacità di regalare allo spettatore un’esperienza visiva e mentale senza pari.
Parliamo della scena in cui Dae-su si reca al suo vecchio liceo per cercare di scoprire la verità su Woo-jin. Qui passato e presente si mischiano, rappresentati dal Dae-su adulto del presente e da quello giovane del passato. Oltre ad essere costruita in modo visivamente perfetto, la scena è anche fortemente simbolica, in quanto rivela le stratificazioni della memoria, costruita secondo un meccanismo secondo cui passato e presente convivono nella mente, in quanto elementi inscindibili e incancellabili.
“Non pensare al futuro. Non pensare a niente.”
La scena del liceo è anche fondamentale ai fini della soluzione finale. Woo-jin ha imprigionato Dae-su perché quest’ultimo ha messo in giro la voce che il primo aveva una relazione incestuosa con la sorella, e questo ha portato la ragazza ad avere una gravidanza isterica e a suicidarsi. Ma la verità non è questa, o almeno, non è completa.
Ciò che ha fatto infuriare Woo-jin è anche il fatto che il protagonista si sia dimenticato di quella storia. Non solo Dae-su ha portato la ragazza al suicidio, ma dopo la morte di quest’ultima, se ne è dimenticato completamente. Allora il problema non è tanto che Woo-jin odi Dae-su per ciò che ha fatto, ma è piuttosto che lo odi per l’indifferenza che ha dimostrato verso una tragedia causata in qualche modo da lui.
Tuttavia la versione non è ancora completa. Ancora una volta ci sfugge qualcosa, ed ancora una volta, come il protagonista, ci sentiamo dispersi, spaesati e frustrati.
“Se fai le domande sbagliate, non troverai mai la risposta giusta. La domanda non è “Perché Woo-Jin mi ha imprigionato?”, ma “Perché mi ha rilasciato?” e poi ancora “Come mai dopo 15 anni?””
La genialità di Old Boy, già espressa nel ribaltamento di prospettiva che ci rivela che la vera vendetta di cui si parla nel film è quella di Woo-jin verso Dae-su e non viceversa; qui culmina nel plot-twist finale che è sconvolgente perché totalmente lontano da qualsiasi logica cinematografica, completamente avulso a qualsiasi tipo di filosofia messa in scena nella storia del cinema.
Tutta la grandissima sequenza finale è un ritratto disfattista che traccia i lineamenti di un mondo ancora scuro, senza speranza, in cui non c’è posto per l’innocenza. Col passare dei minuti l’escalation di negatività ci porta sempre più a fondo, a confrontarci con due mostri in cerca di redenzione, che trovano la pace in due modi diversi.
Woo-jin, per chiudere una traiettoria cominciata con la morte della sorella, si suicida. Mentre Dae-su, a cui è rimasta Mi-do, cerca la pace attraverso l’ipnosi. La scena finale allora, girata in un paesaggio nevoso il cui bianco contrasta fortemente con la cupa parabola del film, potrebbe rappresentare un simbolo di speranza. Dae-su chiede ad un’ipnotista di permettergli di cancellare il ricordo della verità. Vuole tornare l’uomo che ha appena conosciuto Mi-do, quello che non sa che lei è sua figlia.
Dopo l’ipnosi, il protagonista si ritrova da solo, svenuto nella neve, dove viene raggiunto da Mi-do. A venti passi da lui, due sedie.
“Ricorda, sia un granello di sabbia che una roccia nell’acqua affondano allo stesso modo.”
I due si abbracciano, e mentre la camera si sposta lentamente sul viso di Dae-su, lui sorride. Un sorriso colmo di speranza e di innocenza, che piano piano però, lascia spazio ad una smorfia enigmatica che trasuda terrore. I mostri, forse, non si possono eliminare così facilmente.