Midnight in Paris, le illusioni e la sindrome dell’epoca d’oro. La recensione

Midnight in Paris è il simbolo della filmografia recente di Woody Allen. Candidato a quattro premi Oscar nel 2012, il film si è portato a casa il premio per la miglior sceneggiatura originale. Attualmente è anche presente nel catalogo di Netflix, godibile e rivedibile quando si vuole.

Gil è uno sceneggiatore, aspirante scrittore, in vacanza con la futura moglie Inez a Parigi. Una notte, passeggiando per le vie della città in cerca d’ispirazione, si ritrova catapultato negli anni ’20. Parigi, capitale culturale e artistica all’epoca, offre la possibilità a Gil di conoscere e frequentare molti dei più grandi personaggi di quel periodo: da Hemingway a Dalì, passando per i Fitzgerald, Bunuel e molti altri. L’amore per Adriana, la fidanzata di Picasso, porta il protagonista a mettere in dubbio il suo futuro matrimonio nel tempo presente. Ogni sera, a mezzanotte, Gil passa da un’epoca all’altra. E la magia si ripete.

Midnight in Paris racconta tutta la filosofia di Woody Allen, alle prese con la sua opera più matura; nelle tematiche, ma anche nello stile estetico. La magia di Parigi, l’arte e la poesia rappresentano una tregua dal cinismo e dall’insensatezza della vita, altrettanto presenti nella storia e nel pensiero della pellicola. Un contrasto tra dolce e amaro, tra nevrosi e illusioni. Gil è un sognatore, un’idealista. La sua ingenua incapacità di adattarsi alla vita del 2011 lo allontana dalla più concreta Inez, interpretata da un’ottima Rachel McaAdams. I due rappresentano, in contrasto tra loro, la tesi e la antitesi che caratterizzano la filosofia del regista. Midnight in Paris rappresenta uno dei rari casi in cui Allen raggiunge una sintesi fra i due opposti, o per lo meno ci si avvicina.

Midnight in Paris
Inez e Gil, intepretati da Rachel McAdams e Owen Wilson.

Scenografia, costumi, ricostruzioni storiche; ma anche il montaggio, le luci e i piani sequenza sono la convincente rappresentazione della crescita stilistica del regista, nella sua opera più fine e sofisticata.

Owen Wilson è bravo: occhi grandi e sempre spalancati, aria costantemente stupita o perplessa e buona presenza scenica. E poi c’è Adriana, interpretata da un’incantevole Marion Cotillard, tanto bella da essere dipinta da Picasso. Anch’essa convinta che in un’altra epoca sarebbe più felice, così come Gil. Personaggi che danno vita al film più ingenuo e sognante di Woody Allen, senza mai abbandonare la solita visione pessimistica della vita.

La sindrome dell’epoca d’oro è la problematica psicologica più dolce che esista: è l’illusione che in un altro periodo si sarebbe stati più felici. È solo un’illusione, appunto. Così come l’arte: la vita non ha senso, ma se c’è una scappatoia alla sua futilità, quest’ultima è rappresentata proprio dall’arte. Questo tema, già accennato in passato, non era mai stato trasmesso allo spettatore in maniera così esplicita e diretta da Woody Allen.

Midnight in Paris
Adriana, interpretata da Marion Cotillard, con Gil.

Ma a queste illusioni, che regalano solo una parvenza di momentanea felicità, riportando vagamente al pensiero di Leopardi, Allen si aggrappa con tutte le forze, più che mai. Stavolta non accetta di sopperire al nulla esistenziale. Questa volta, se c’è una possibilità di riscatto, il regista se la prende con tutto sé stesso. Salvo poi scoprire, alla fine, che una vita d’amore in un’altra epoca non può esistere veramente. Ma non è come il cinico finale di Io e Annie; la conclusione, stavolta, è caratterizzata da uno spiraglio di ottimismo. La cornice di una bellissima Parigi sotto la pioggia che da vita a un nuovo amore, non può che lasciare uno stato d’animo quasi lieto, seppur malinconico.

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