Green Book, la recensione del Miglior Film agli Oscar 2019

New York. 1962. Tony “Lip” Vallelonga è un italo-americano che vive nel Bronx e lavora come buttafuori al Copacabana, un prestigiosissimo locale notturno della Grande Mela. A causa di una chiusura temporanea dello stesso e avendo necessità di trovare un modo per sostentare la su numerosa (e chiassosa) famiglia, si trova costretto a cercare lavoro. Ne troverà uno come autista del ricco musicista afroamericano Don Shirley, impegnato in una prossima tournée di concerti nel profondo sud degli Stati Uniti, ancora funestato dal pregiudizio e dalla segregazione razziale. Dall’unione inaspettata di questi due improbabili compagni di avventure nascerà un viaggio sincero in cui i due uomini impareranno a conoscersi, capirsi e volersi bene.

Il titolo del film deriva inoltre dal The Negro Motorist Green Book. Questa guida venne scritta nel 1936 da Victor Hugo Green, un impiegato americano delle poste, che raccolse in questo libretto tutti i (pochi) ristoranti e alberghi accoglienti degli USA nei cofronti dei non-bianchi. La guida divenne dunque certamente un aiuto per la comunità afroamericana, ma allo stesso tempo un emblema del segregazionismo più edulcorato.

Green Book

Queste le linee guida del film di Peter Farrelly che recentemente si è aggiudicato il premio come Miglior Film all’ultima edizione degli Oscar (qui tutti i premi assegnati), senza scamparsi da (più di) qualche critica, in particolare proprio dal versante afroamericano. Il film si presenta con l’impostazione da classico buddy/road movie tanto cara al regista – non dimentichiamo che Farrelly ha scritto e diretto commedie come Lo spaccacuori e Scemo & più scemo -. Ed è proprio attraverso una lente comico-farsesca, lontana però dai toni demenziali dei successi sopra citati, che ci viene presentato non solo il viaggio in sé, ma anche l’intera questione razziale. Quest’ultima rimane infatti una sottotrama costante delle vicende, e soprattutto dei dialoghi del film, riaffiorando in superficie solo per alcuni decisivi momenti.

L’intero film è retto e giocato sui contrasti fra le due personalità protagoniste. Da un lato abbiamo l’italo-americano Tony Lip, incarnato da un Viggo Mortensen in grandissima forma e con qualche cheeseburger in più in corpo. Egli è un tipo tutto terra terra: parla a sproposito, non ci pensa un attimo a fare a botte, ama oltre modo la sua famiglia e mangia… mangia di continuo. Dall’altro lato abbiamo il Don Shirley interpretato dal pluripremiato Mahersala Ali. Lui invece è un uomo colto, salutista, allampanato, quasi ieratico nella fisicità, e raffinatissimo che vive in uno stato di completa astrazione dalla vita comune (non è un caso che il suo lussuossissimo appartamento sia situato sopra la Carnegie Hall, una delle più rinomate sale concertistiche al mondo). Verace e invadente l’uno, tanto quanto rispettoso e controllato è l’altro: il primo, completamente inserito e assorbito dal contesto in cui vive, il secondo parla tante lingue ma non comunica veramente con nessuno. La divergenza tra i due non si pone dunque solo a livello di stili di vita, ma viene enfatizzata anche nella somatizzazione della loro persona. Da sottolineare ad esempio, in un film fatto prettamente da dialoghi brillanti, l’accento posto sulle due differenti vocalità. La parlata slabbrata e onestamente sbagliata di Tony-Mortensen (da apprezzare soprattutto in lingua orginale) si scontra con il tono borghese e aulico di Shirley-Ali che fa cadere totalmente qualsiasi legame con la tipica inflessione afroamericana. E sembra proprio questo della lingua il terreno di incontro/scontro di molti film “black” provenienti dalla Hollywood contemporanea. Guarda caso, anche BlackKklansman di Spike Lee, altro film “da Oscar”, sceglieva come protagonista proprio un nero che sapeva destreggiarsi nell’imitare la “parlata bianca”.

Green Book

Green Book è un film indubbiamente ben scritto e congeniato che scorre veloce come l’auto di Tony per le colorate campagne sudiste e che fa dell’attrazione tra i due opposti il suo motore propulsivo. Possiamo decisamente sostenere che il film sia nella sostanza abbastanza ingenuo e “sempliciotto”, ma riesce a fare di questa ingenuità un tratto di verità. Infatti un po’ come i drammi moraleggianti della Holywood anni ’40 – e qui non serve ricordare la sequenza finale di confraternità natalizia – ci presenta il problema della razza risolvendolo (solo?!) sul piano emotivo. La questione del razzismo è posta così su un livello completamente umano, lasciando solo intravedere le dinamiche socio-culturali che sottostanno ad essa. I due uomini, infatti, si conoscono e si comprendono attraverso uno scambio vicendevole. Tra un KFC (mangiato in Kentucky!) e una canzone di Little Richard, Tony insegna a Don l’apprezzamento per le sue radici, mentre il musicista aiuta il suo autista a scrivere lettere da mandare alla moglie.

Per quanto semplice e naïve possa essere la morale del nostro Green Book (o forse oggi diremo “buonista”), il film sostiene che il razzismo sia più un costrutto sociale che un qualcosa di incarnato nella cattiveria umana. Anche perché alla fine tutti balliamo le “musiche nere” per eccellenza (blues, soul, jazz) e a tutti piace il pollo fritto. Inoltre ognuno di noi è, usando le parole di Don, “troppo bianco” per alcuni e “troppo nero” per altri. Riprova di quanto sostenuto finora è che nel film il legame umano creato dalla coppia Tony-Don è molto più utile di qualsiasi green book, destinato solo a essere dimenticato sul sedile dell’auto oppure simbolicamente abbandonato sul letto dall’autista al primo segnale di minaccia del suo “protetto”.

Green Book

Può essere che Green Book sia solo l’ennesima prova di un film “fatto da bianchi per i bianchi” (tanto da essere stato definito “razzista”), che usa e mette tutti gli ingredienti al posto giusto per avere un riscontro in termini di pubblico e di premi, così come è stato additato. Certo è che poca colpa ha il film in sé, che risulta comunque altamente godibile e bilanciato. E, a nostro modestissimo parere, se l’Academy avesse voluto premiare veramente un film politico in senso stretto, non si sarebbe dovuta rivolgere nemmeno ai più impegnati Spike Lee o Roma, bensì al dibattutissimo Black Panther. Perche sì, abbiamo dovuto aspettare il 2018 perché dei bambini (anche bianchi) prendessero a modello un EROE NERO, e soprattutto lo facessero tramite un prodotto cinematografico! Se non pensate sia una rivoluzione questa!

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