Il 2017 sta per finire e lo ricorderemo come l’anno dei sequel di film cult: Trainspotting 2, Star Wars: Gli ultimi Jedi… e Blade Runner 2049. Cerchiamo di analizzare i motivi alla base dello scarso successo al botteghino del sequel del celebre cult di Ridley Scott.
Arrivo al cinema ad Ottobre inoltrato, quando Blade Runner 2049 è quasi a fine programmazione, relegato alla sala con meno capienza. Mi intristisce un po’ pensare che arrivo a vedere questo sequel tanto bramato quando ormai l’attesa è scemata ed è stata sostituita da una lunga serie di stroncature di pubblico e critica. Blade Runner 2049 è un flop, dicono: poco meno di 33 milioni di dollari al primo fine settimana, solo 72 milioni negli States (mentre scrivo), per un film con un budget superiore ai 150 milioni.
“Perché?” – mi chiedo.
L’inizio è di alto livello, le scene incredibili, le luci della Los Angeles distopica accecanti. E non potrebbe essere altrimenti, vista la presenza in regia di Denis Villeneuve – che ha già trattato e a suo modo reinventato la fantascienza con Arrival – e alla fotografia di Roger Deakins, uno che nella vita colleziona nomination agli Oscar.
L’universo di Blade Runner, che tanto aveva colpito negli anni ’80 con i suoi neon e la sua metropoli che ti inghiotte mentre ti bagna con la pioggia, tutto si può dire tranne che non sia stato trattato con rispetto e con cura maniacale. Forse troppa. Villeneuve si comporta come una squadra sfavorita che non attacca per timore reverenziale, ma l’universo che crea è pienamente coerente con le intenzioni del prequel: le macchine volanti, le pubblicità, i grattacieli che svettano su esseri umani (e non) uniti dalla loro apatia.
Addirittura il film regala un antieroe molto più cupo, molto più noir di Deckard. L’agente K, interpretato da Ryan Gosling, è un protagonista che subisce la storia e non la governa, che parte per una ricerca di cui non capisce il senso. Però parte. Con l’aggravante di essere lui stesso un replicante, costretto per lavoro a eliminare i propri simili, mentre con Deckard avevamo la (quasi) certezza che fosse umano.
“Ma allora cosa c’è che non va?” – penso, dopo un’ora di proiezione.
È vero, il nuovo Blade Runner ha dei difetti. Si perde nello spiegare ciò che negli anni ’80 era chiaro e immediato: la dissociazione di un mondo che altro non è che il nostro proiettato nel futuro. Si preoccupa a tal punto dei grandi messaggi da dimenticarsi di caratterizzare gli antagonisti, monocordi ed eccessivi, al limite del macchiettistico, finendo per sprecare un pezzo da novanta come Jared Leto. Più volte la trama rischia di scivolare nell’action movie di becero livello (più o meno l’opposto del primo Blade Runner, che nel racconto di un inseguimento nascondeva la disperata voglia di essere umani, come se niente fosse).
Però… però… non è solo questo.
Non sono solamente tecnici i motivi per cui Blade Runner 2049 non è piaciuto a una larga fetta di pubblico, specialmente ai giovani. Io credo che la motivazione vada cercata in un livello più profondo.
Un livello quasi sociologico.
Scott aveva fatto un film futuristico dalle tinte noir, uscito nelle sale nel 1982, in un mercato cinematografico da poco sconvolto dall’avvento di Star Wars. Il primo Blade Runner era ambientato nel 2019, ormai a due passi dai giorni nostri. Ma a quei tempi no. Quel film è diventato un cult – non subito ma alla lunga – proprio perché era innovativo, parlava realmente del futuro. E lo faceva in modo disilluso e cinico, per la prima volta. Il pubblico ha potuto davvero credere che il nuovo millennio sarebbe deragliato esattamente nel modo esplicato dal film, qualora avessimo perduto la nostra umanità.
Oggi non basta ambientare un film nel 2049, perché sia nel futuro.
Perché il film di Villeneuve ci prova a parlare di ciò che sarà, ma senza crederci più di tanto. E finisce per parlare inequivocabilmente del presente. E come può avere lo stesso appeal il gigantesco ologramma di una prostituta che prova ad ammaliarti, oggi, che si viaggia fino ad Amsterdam per vedere il corpo di donne bellissime esposto in vetrina? Come può colpire la storia d’amore con un computer, una creatura irreale, oggi che possiamo parlare con Siri?
Poi, tra l’altro, la storia d’amore con un computer l’abbiamo già vista in Her di Spike Jonze, nel 2013, e quindi…
E quindi tutto ci sembra già visto. Tutto già raccontato. E se non lo abbiamo letto in un libro o visto in un film, lo abbiamo vissuto noi in prima persona.
Non è cambiato solo il regista, non è cambiata solo la trama di Blade Runner.
È cambiato il pubblico.
E il pubblico di oggi – saturo di narrazioni di vario genere e composto da una folta classe di critici da tastiera – non ha gli strumenti per emozionarsi con l’universo di replicanti che ambiscono alla vita di noi umani, in un film che non raggiunge mai gli estremi, né dell’azione né della profondità di contenuti. Un film che si rivela incerto e spaventato dal predecessore, esattamente come l’agente K, che con voce tremante afferma di chiamarsi Joe e che va a chiedere spiegazioni a Deckard, l’ormai invecchiato Harrison Ford.
Compare tardi, Deckard, ma fa in tempo a spiegarci il senso del film, nella lunga scena ambientata in un baretto – guarda un po’ – anni ’80. Ed è la scena forse più emozionante dell’intera pellicola: mentre Deckard e K si inseguono, sul palco compare Marylin Monroe, poi un’esibizione di Elvis. Poco dopo un jukebox avveneristico ci consegna l’immagine in bianco e nero di Frank Sinatra.
“Allora ecco perché non è piaciuto questo film” – mi dico.
Perché non parla del futuro, ma di noi. E lo fa in modo disilluso e cinico. Getta luce su una dissociazione che ha ben poco di distopico e molto di odierno, e ci dipinge una società che non riesce a spingere più oltre lo sguardo ma che, esattamente come Deckard, si protegge nella sicurezza che concede un passato che si conosce. Le stesse aziende proiettate dagli ologrammi su Los Angeles sono aziende di trent’anni fa. Alcune oggi nemmeno esistono più.
Non si parla più del rischio di perdersi, per l’umanità.
L’umanità si è già persa, e questo Villeneuve lo spiega bene. Forse troppo. Per questo la lunga ricerca nel voler essere umani, stavolta si conclude con la neve che cade lenta sulle mani, e non con uno struggente monologo colmo di rimpianti. Perché ormai, oggi, siamo umani soltanto se riscopriamo le cose semplici. I rimpianti li diamo già per assodati, se nemmeno riusciamo più ad immaginarlo, il futuro.
“Io ne ho viste di cose che voi umani non potreste immaginare” – diceva il replicante Roy Batty, interpretato da Rutger Hauer, nella celeberrima scena finale del primo Blade Runner.
E penso che è esattamente questa, la differenza, trent’anni dopo. Oggi ad averne viste di cose che non si potevano immaginare è il pubblico.
Forse per questo è così difficile emozionarlo.
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