Se non si può imputare qualcosa ad Edgar Wright è quella di non aver creato, e continuato a seguire nel corso degli anni, un proprio modo di fare cinema. Giunto al sesto lungometraggio, il regista britannico dimostra di trovarsi ancora sulla cresta di un’onda creativa che non pare essere prossima alla fine. Baby Driver è la rappresentazione della consacrazione, della totale padronanza del mezzo cinematografico e la conseguente possibilità di piegarlo alle proprie esigenze.
La dote indiscussa che bisogna attribuire ad Edgar Wright sembra essere quella di affrontare i diversi generi andandoli a marchiare, di volta in volta, con il proprio stile. In tal senso un’occhiata alla filmografia può aiutare.
Nella Trilogia del Cornetto — definita così dal regista nel tentativo scherzoso di paragonarla alla trilogia dei colori di Kieślowski — composta da Shaun of the Dead, Hot Fuzz e The World’s End, si sono voluti affrontare rispettivamente: zombie movie, poliziesco e alien movie. Lo stesso si può dire per Scott Pilgrim vs The World, uno dei migliori comici movie realizzati negli ultimi anni.

Si diceva di Baby Driver. Stavolta il sottogenere è quello dell’heist movie, ovverosia quella tipologia di film incentrato sull’organizzazione e la realizzazione di un “colpo grosso”, di una rapina. I Soliti Ignoti sostanzialmente.
Baby è un pilota provetto, costretto a lavorare per un boss, Doc, che organizza rapine. Baby soffre di acufene che riesce a scordare ascoltando praticamente sempre musica dal suo iPod. Nella sua vita privata Baby si prende cura del padre adottivo Joseph, paraplegico e affetto da mutismo, crea montaggi musicali con conversazioni che riprende con un registratore a nastro e si innamora di una cameriera, Debora, con la quale riesce a stabilire una relazione che s’intreccerà alla sua vita criminale.
Che il cinema sia un’arte visiva Wright sembra averlo capito bene. Baby Driver, come i precedenti lavori dell’autore, è ricco, anzi ricchissimo, di un sottotesto non verbale che ci aiuta a comprendere elementi della trama altrimenti mai spiegati a parole.
La primissima scena, caricata per intero su YouTube dalla casa di produzione, ne rappresenta un esempio chiaro.
La sequenza si apre con Baby (Ansel Elgort) in macchina con 3 persone. Un rapido primo piano ci mostra tutti i personaggi e già si nota un primo fatto: mentre Baby appare come un comune ragazzo diciottenne, gli altri sono interamente vestiti di nero e minacciosi. Già qui ci viene comunicato, a livello solamente visivo, la lontananza del protagonista da quel mondo criminale che sta aiutando.
I 3 escono dalla macchina, prendono le armi e s’incamminano – a tempo di musica – verso la banca. La camera, che potrebbe seguirli fin dentro e raccontarci della rapina, sceglie invece di seguirli da lontano facendoci restare nell’abitacolo con Baby. Questo escamotage del non mostrare la rapina — noto ai più per via delle iene di Tarantino — ci fa comprendere chi sia il vero protagonista della vicenda.
Mentre il colpo è in atto Baby si limita ad ammazzare il tempo ballando il pezzo in riproduzione, ciò enfatizza la forte unione con la sua musica ed il suo carattere stravagante.
Ecco che improvvisamente s’irrigidisce: una volante gli passa casualmente accanto e tira dritto facendolo concentrare sulle violenze che stanno avvenendo in banca. Una sequenza di pochi secondi che, da una parte, ci mostra, ancora una volta, la purezza morale del protagonista, dall’altra, la paura dell’arresto, il pericolo sempre dietro l’angolo.

I rapinatori escono dall’edificio e qui comincia la seconda parte della scena: l’inseguimento. Una volta iniziata la fuga le stranezze gestuali e comportamentali di Baby scompaiono. Alla guida è sicuro e deciso, in netta contrapposizione con il Baby che si distraeva durante il colpo.
Edgar Wright (validamente accompagnato da Jonathan Amos e Paul Machliss) riesce da questo momento a dare il meglio di sé. Nei 3 minuti di folle corsa automobilistica troviamo 164 tagli. Uno ogni 1,2 secondi in media.
Va infine ricordato un’altra volta il fattore più importante. In tutta la scena descritta non c’è mezza parola di dialogo, solo incitazioni e musica.
Le informazioni che fino ad ora lo spettatore ha acquisito sono state mediate senza l’uso della parola: pura forma cinematografica. Ciò si ripeterà in modi diversi durante tutti i 115 minuti di film.

La regia appare dunque cristallina, ma l’attenzione più grande va data al comparto sonoro, a causa delle peculiarità del protagonista. Alle volte si ha la sensazione che pure i suoni diegetici – come il rumore di una portiera, di un ascensore o di banconote che sbattono sul tavolo – vadano a tempo di musica. E in un certo senso è una sensazione voluta.
Le musiche non originali contano pezzi, fra gli altri, dei Queen, dei Beach Boys, di Barry White e di Simon & Garfunkel.
A fare da contraltare alla genialità lunatica del protagonista troviamo un mondo criminale cui il nostro protagonista si adegua con difficoltà. Particolare rilevanza assumerà il personaggio di Doc (Kevin Spacey) nel particolare doppio ruolo di guida paterna e boss criminale senza scrupoli. Ad accompagnare Baby nelle sue rapine ci saranno “Buddy” (Jon Hamm); “Darling”, moglie di Buddy (Eiza González); “Griff” (Jon Bernthal); “Bats”, nel ruolo del pazzo (un credibilissimo Jamie Foxx). Tutte interpretazioni più che convincenti.
Baby Driver è la summa del lavoro ventennale del regista britannico. Inseguimenti, sparatorie ed esplosioni sono elementi che generalmente vengono assimilati ad un filone cinematografico pigro e sensazionalista, che punta tutto ad impressionare lo spettatore. Edgar Wright ci dimostra ancora una volta che è possibile servirsi di questi elementi per regalare al pubblico un prodotto di qualità. La costruzione della trama non presenta sbavature e permette di raggiungere un climax ascendente nella seconda parte della pellicola, quando gli schemi sono definitivamente saltati. Un lavoro notevole che si candida ad una serata da protagonista ai prossimi Academy Awards.
Per approfondire lo stile del regista: