Black Mirror arriva alla quarta stagione, la seconda prodotta da Netflix, e tra conferme e delusioni inizia a prendere una decisione precisa.
Sono passati ormai 6 anni dall’uscita di Black Mirror, serie fantascientifica creata da Charlie Brooker e originariamente prodotta dalla BBC, che attraverso storie ambientate in futuro prossimo cerca di riflettere sull’impatto della tecnologia e sul modo in cui essa modifica o amplifica le più profonde pulsioni umane. Un anno fa usciva la terza stagione della serie, la prima prodotta da Netflix, e già avevamo intuito che pur cercando di mantenere alcuni elementi fondamentali che ne avevano creato il successo, Brooker stava gradualmente preparando i fan ad un futuro diverso, basato su una filosofia produttiva e narrativa diversa, che si manifesta ora in questa quarta stagione.
Leggi la nostra recensione di USS Callister.
La cosa più evidente è la volontà della serie di abbracciare un pubblico più ampio, smussando gli angoli più spigolosi che una volta ne costituivano le fondamenta. Per intenderci, il lieto fine di Hang the DJ è una delle cose più lontane dalle prime due stagioni che ci sia, così come l’umorismo eccessivo di USS Callister. Rimangono parzialmente degli sporadici elementi che richiamano la fase pre-Netflix della serie, ma sono per lo più delle strizzatine d’occhio da parte di Brooker ai vecchi fan della serie, troppo poco per esserne soddisfatti. E’ come se Brooker volesse dirci “siamo ancora qui, sotto la superficie, non vi abbiamo abbandonati”, ma è evidente che il passaggio dalla BBC abbia lasciato solchi profondi nella struttura di Black Mirror che una regia curatissima e una fotografia impeccabile non riescono a colmare.
Perchè se c’è una cosa che non si può negare, è l’estrema cura formale riservata ad ogni singolo episodio della stagione, così come la varietà di stili e generi. Per intenderci, USS Callister riprende lo stile delle serie televisive di fantascienza, Star Trek su tutti, Metalhead usa un bianco e nero dai contrasti molto marcati per evidenziare l’asprezza del paesaggio e usa una narrazione da survival Horror, mentre Crocodile è un thriller in piena regola, che gioca sul contrasto fra il bianco candido della neve e il tema nero della morte. Dunque una commistione di riferimenti visivi e narrativi che ne fanno la stagione più eterogenea dell’intera serie.
Leggi la nostra recensione di Arkangel.
Cerchiamo di capire allora in che modo i singoli episodi si sono approcciati alla filosofia della serie, nuova o vecchia che sia. USS Callister è un enorme riferimento al mondo dei videogiochi e della fantascienza, attraverso l’analisi di una personalità problematica come quella di Robert. Qui la crudezza della serie è smorzata con due espedienti: da una parte la comicità, dall’altra l’isolamento dei personaggi in una dimensione virtuale che riduce l’impatto del pathos. Brooker sembra accorgersi soprattutto del secondo problema, e inserisce un finale che ha conseguenza dirette sul mondo reale, ma è troppo poco. E nonostante la narrazione sia costruita in modo quasi impeccabile, con l’inserimento al punto giusto di colpi di scena, tensione e cali della stessa, la puntata non riesce ad incidere come in passato.
La seconda puntata, Arkangel, diretta da Jodie Foster, tenta subito di tornare sui binari abituali, riuscendoci solo in parte. Sono presenti di nuovo i temi classici della serie: l’ansia del controllo sui figli esasperata da uno strumento tecnologico, il conflitto morale, l’impossibilità di controllare gli istinti e la violenza come conseguenza di una condizione portata all’estremo. Tuttavia manca ancora qualcosa, e la puntata si perde in un finale prevedibile dalle forti tinte drammatiche. Una crescita comunque rispetto alla prima puntata, anche se manca quell’elemento che rendeva Black Mirror quello che era, cioè la partecipazione dello spettatore, che si rendeva complice degli errori commessi dai personaggi.
Leggi la nostra recensione di Crocodile.
Crocodile è forse la puntata che più ricorda il vecchio spirito della serie, ed è infatti una delle più riuscite. L’episodio si chiede quale sia il prezzo che si è disposti a pagare per mantenere una vita agiata, nonostante i sensi di colpa che pregiudicano un’esistenza tranquilla e il ritorno di un passato difficile da cancellare. Le forti influenze thriller rendono la puntata molto coinvolgente sul piano emotivo, riuscendo a mantenere una tensione alta e palpabile per l’intera durata. Questa volta la partecipazione dello spettatore c’è, attraverso un elemento tanto semplice quanto efficace: l’assistere al primo delitto all’inizio della pellicola, un incidente che può succedere a chiunque, così come è abbastanza condivisibile la reazione dei personaggi.
Con la quarta puntata, Black Mirror torna a sperimentare, costruendo una puntata dai toni romantici anche se parzialmente tesi. Il campo di analisi è quello delle app di incontri che si stanno diffondendo negli ultimi tempi, da Tinder a Lovoo, ed è dunque una realtà molto vicina allo nostra anche se come di consueto un pò esasperata. La puntata sembra chiedersi quale posto abbia il vero amore in un mondo in cui gli incontri casuali e la frenetica ricerca del partner perfetto la fanno da padrone. Hang the DJ regge bene per tutta la sua durata, costruendo una narrazione senza cali, che sfocia in un finale molto lieto, atipico per la serie e per questo sorprendente. Una conclusione che in passato non avrebbe trovato posto ma che nel nuovo Black Mirror è sempre più comune, per questo molti dei vecchi fan hanno storto il naso, ma l’episodio è tutto sommato ben riuscito.
Leggi la nostra recensione di Hang the DJ.
Metalhead è, dispiace dirlo, la peggiore puntata della stagione e forse dell’intera serie. Nonostante un bianco e nero impeccabile in grado di esaltare la crudezza del paesaggio, il ritmo è lento, e la narrazione semplice si basa su un unico inseguimento che vede coinvolta una Maxine Peake in evidente difficoltà nel reggere praticamente da sola il peso dell’intero episodio. Il finale eccessivamente drammatico è fuori luogo, chiaramente fatto per creare un senso di tenerezza, ma se il finale di Hang the DJ era giustificato dal tono e dal tema della puntata, questo risulta troppo forzato e per nulla convincente, insomma, non ci siamo.
All’ultimo episodio tocca il difficile compito di risollevare le sorti dell’intera stagione, risultato raggiunto solo in parte. Black Museum è un grande omaggio al passato della serie, ed un tentativo di ricostruire il rapporto con i fan attraverso l’inserimento di una serie di citazioni visive e narrative che giocano sulla fidelizzazione degli spettatori. La trama è avvincente, costruita su un insieme di storie che il proprietario del museo racconta alla protagonista. Anche se di nuovo, il filtro costituito da una narrazione che avviene per forma indiretta non ci permette di condividere in pieno le emozioni dei personaggi. Il risultato non è assolutamente negativo, e il finale arriva in modo improvviso e sconvolgente.
Leggi la nostra recensione di Metalhead.
In generale il giudizio sulla stagione non può essere positivo, manca un episodio che faccia gridare la capolavoro, come era successo nella precedente con San Junipero, e quando la stagione tocca livelli bassi arriva a punti mai sfiorati prima d’ora. La mano di Netflix si vede soprattutto nell’attenzione alla componente formale: regia e fotografia sono curati come non mai, ma ciò che veramente manca è la capacità di colpire nel profondo, di costruire un groviglio di sensazioni spiacevoli che ci facciano mettere in discussione il nostro approccio con la tecnologia. I colpi di scena ci sono, anche se a volte prevedibili o evitabili, così come la tensione che ne fanno comunque un buon prodotto. Il problema fondamentale è che pur essendo una buona stagione, non è eccellente, e dopo averci abituati a standard altissimi la delusione è difficile da superare.
Leggi la nostra recensione di Black Museum.