W. e Vice: i film di Stone e McKay spiegano le Torri Gemelle e l’Afghanistan

Nell’estate del 2009, uscì una canzone qualunque. Conosciuta ai più per il motivo orecchiabile e scanzonato, non si può dire avesse un titolo per famiglie. Quel Fuck You – così si chiamava la nota canzone di Lily Allen – era indirizzato a qualcuno che la cantante auspicava non si facesse sentire mai più. Un ragazzo infedele? Tutt’altro: il soggetto della canzone era descritto (testualmente) come un omofobo, razzista, patetico arseholesmall-minded. Tradotto: un’emerita “testa di ca**o” con una “mente piccola piccola”. Mettete insieme i due insulti e ne otterrete un terzo, sulle dimensioni del suddetto. Decisamente troppo (o quasi) per un ragazzo infedele: quel testo era fortemente politicizzato, metteva sulla graticola un uomo potente e la sua cricca. La sua identità era nascosta, sotto forma d’acronimo, nel titolo originale della canzone – poi cambiato – che offriva un indovinello e la risposta: Guess Who’s Batman (G.W.B.). George W. Bush! Proprio lui, il 43esimo Presidente degli Stati Uniti d’America, arrivato allo Studio Ovale poco prima dell’attentato alle Torri Gemelle di cui, oggi, ricorre il ventesimo anniversario.

You want to be like your father
It’s approval you’re after
Well, that’s not how you find it

Ironia a parte, quel brano ebbe il merito d’individuare uno dei grandi punti deboli di Bush e quindi della sua Presidenza: il rapporto con suo padre, la ricerca disperata di approvazione e al contempo il desiderio di scavallare un uomo che – già Capo della CIA, Vicepresidente e 41esimo Presidente USA, figura di certo ingombrante – lo aveva sempre considerato un fallito, un buono a nulla inadatto alla carriera politica e dunque a mantenere la tradizione della famiglia, che Bush Senior riponeva quindi nelle mani del figlio minore Jeb, fratello di George. C’è un film, un pregiatissimo biopic su Bush Jr. uscito meno di un anno prima della canzone, che ha costruito intorno a questo rapporto l’intera analisi della Presidenza USA che, dopo l’attentato terroristico alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, avrebbe cambiato per sempre ma non sempre in meglio le sorti e gli equilibri del Medio Oriente e del resto del mondo.

A life misunderestimated

Josh Brolin è George Bush
Josh Brolin è George Bush

Fra tre giorni esatti saranno tre quarti di secolo dalla nascita Oliver Stone, uno dei più stimabili registi statunitensi, lucido analista e autore di grandi decostruzioni della storia americana, spesso smuovendo le acque e facendo avviare inchieste e commissioni: dalla Guerra in Vietnam – di cui fu reduce – con film come Platoon e Nato il quattro di luglio, alla tossicità dei mercati finanziari con Wall Street; dal crollo (appunto) delle Torri Gemelle in World Trade Center, ai diversi ospiti della Casa Bianca. A questi ultimi in particolare ha dedicato una incomparabile Trilogia Presidenziale, intitolata ad altrettanti POTUS: JFK nel ’91, Nixon nel ’95 e infine W. nel 2008, con protagonista Josh Brolin. In quest’ultimo, Stone ripercorre in due piani narrativi alternati e grazie a una serie di lunghe, emblematiche sequenze, ora la Presidenza di George Bush Jr., ora attraverso flashback il suo sciamannato passato da alcolista e nullafacente, attribuendo molti guasti della prima ai problemi irrisolti del secondo, in particolare il rapporto con suo padre, eternamente insoddisfatto di un figlio mai all’altezza, ma sempre pronto a raccomandarlo per dimostrarne l’inferiorità. E sempre più stanco di farlo. Il suo leitmotiv, carico di svalutazione: “Sappi che mi deludi Junior, mi deludi profondamente“.

Su questo fronte, una delle scene più emblematiche di tutto il film – che svela un retroscena inquietante dietro l’avvio della Presidenza – è proprio l’ultima, nella quale padre e figlio hanno un confronto immaginario. Senior rinfaccia a Junior di averlo aiutato con quel suo “problemino elettorale“, su cui Michael Moore aveva indagato in maniera molto più approfondita nella sua coraggiosa docu-inchiesta Farenheit 9/11. Senza tirare in ballo il complesso sistema elettorale dei Grandi Elettori: vi basti sapere che nello Stato che decise l’esito delle elezioni del 2000, la Florida in cui (peraltro) era allora Governatore il fratello Jeb Bush, W. vinse sull’avversario democratico Al Gore per circa 500 voti, contro i 100 milioni di votanti su 280 milioni di cittadini. Moore e Stone attribuiscono alle interferenze del fratello e del padre la vittoria di Bush, che di lì a poco avrebbe deciso più o meno indirettamente della sorte – e della morte – di milioni di persone.

La tela del ragno

L'attentato alle Torri Gemelle
L’attentato alle Torri Gemelle

Se è vero che Bush, da fervente religioso, attribuiva la sua vittoria al volere del Signore – aspetto affrontato nel film – come se fosse stato scelto nell’imminenza di grandi rivolgimenti; e se è altrettanto vero che i messaggi divini, normalmente, arrivano dall’alto; si potrebbe quasi dire che Bush, il segno dal cielo, l’ebbe appena un anno dopo. L’11 settembre 2001, gli Stati Uniti vengono sconvolti dal peggior attentato terroristico della storia recente, causa di una lunga reazione a catena che persino mentre scrivo non si è ancora interrotta: le Torri Gemelle di New York, sede del World Trade Center, collassano su sé stesse dopo lo schianto di due aerei su rivendicazione – con un anno di ritardo – di Osama Bin Laden, capo del gruppo jihādista di Al-Qaida. I talebani, al potere in Afghanistan, offrono protezione a Bin Laden, cosa che spinge gli USA a invadere il Paese per proteggere sé stessi – e il mondo – da futuri attacchi. Ma fino a un decennio prima, i talebani – e persino Bin Laden – erano conosciuti dall’occidente con un altro nome, Freedom Fighters, e per questo finanziati e armati dagli Stati Uniti in chiave anti-sovietica. Il primo di tanti errori di valutazione, ce ne saranno degli altri, poi ci arriviamo.

Mentre Bin Laden sposta i suoi uomini sulle montagne dell’alleato – non di Bin Laden, ma degli Stati Uniti! – Pakistan, invece di concentrarsi sull’Afghanistan gli USA “tirano fuori dal cappello” un nuovo nemico – come cita Jeffrey Wright nei panni di Colin Powell in una scena illuminante. Qualcuno che con le Torri Gemelle non aveva – nel modo più assoluto – nulla a che fare, ma che (guardacaso) Bush Senior aveva invaso con la Prima Guerra del Golfo senza portare a termine il lavoro, cosa che gli costò la rielezione: l’Iraq di Saddam Hussein, colpevole (presunto) di voler ampliare la guerra di Bin Laden con (presunte) armi di distruzione di massa. Dopo aver ricapitolato tutti questi passaggi con una minuzia narrativa ineguagliabile, grazie a una regia di tutto rispetto e appoggiandosi a un interprete iconico come Brolin, Stone dipinge quella in Iraq come una guerra personalistica di Bush, desideroso di arrivare dove suo padre si era fermato e di dimostrargli così, finalmente, la sua superiorità: “Gli avevo detto di arrivare a Baghdad e buttare giù Saddam. Questa è la mia guerra. Non la sua” – dirà Brolin riferendosi a Bush Senior (James Cromwell).

https://youtu.be/nVmVdOohAXg

Ma cosa, o chi, collega tutti i puntini? Basta il capriccio di un Presidente per scatenare una guerra? Qualcuno direbbe che è una domanda retorica. Ma quali altre ragioni alla base? E quali le scuse accampate per l’invasione oltre ai report dei servizi segreti sulle armi di distruzioni di massa che, ucciso Saddam, si sarebbero rivelate inesistenti? Stone addensa tutte le risposte in questa unica, lunga scena fondamentale, montata esattamente al centro del film, come uno spartiacque la cui importanza è dimostrata dalla sua rottura della struttura narrativa a due piani. Tutti i flashback sono localizzati prima della vittoria di Bush; tutto quanto segue, invece, solo dopo la decisione di invadere l’Iraq; meno questa, che la prepara. La scena è il giacimento madre, riassumerla è impossibile: è talmente densa che meriterebbe di essere proiettata in ogni corso di giornalismo d’inchiesta. Forse non vi resta che vederla, assieme a tutto il film. Solo un piccolo spoiler però. In Iraq non c’erano armi di distruzione di massa né terroristi, tranne quelli che proprio l’invasione avrebbe indirettamente rafforzato (ci arriviamo): c’era il petrolio. Ecco la chiave, ecco la storia. Quella di un petroliere fallito – contro la tradizione Bush, ancora una volta – che non avendo trovato, in gioventù, null’altro che pozzi vuoti, decise da Presidente di andare a trivellare quelli di qualcun altro, accampando la scusa delle armi di distruzione di massa. E alla fine, non trovò nemmeno quelle.

# Bush, let’s kill your vice #

Christian Bale è Dick Cheney
Christian Bale è Dick Cheney

Questa, già satura, è però solo una parte della storia. Nel quadro generale sembra mancare qualcosa, come la mano tutt’altro inconsapevole di chi, dietro le quinte, seppe manovrare e fomentare con cinica lucidità le pulsioni infantili di Bush nel più completo anonimato. Un burattinaioL’uomo nell’ombra cui il promettente Adam McKay – in procinto di mostrare il suo Don’t Look Up – dedicò il suo penultimo film: Vice. Dopo una produzione non esattamente impegnata vissuta al fianco del suo attore feticcio, Will Ferrell, McKay si è saputo imporre negli ultimi cinque anni con una coppia di film in cui, sfruttando le proprie doti da comunicatore al pubblico mainstream, le ha sapute indirizzare verso la satira politica. Nel giro di due sole pellicole – la prima, La grande scommessa, trattava della crisi immobiliare del 2008 – ha fatto propria una riconoscibilissima autorialità basata su montaggi serrati, immagini di repertorio, narratori accattivanti e metafore semplificatrici, per indorare al grande pubblico pillole economico-politiche apparentemente noiosissime.

E chi più noioso di un anonimo Vicepresidente USA, carica onoraria talmente inutile da portare la qui presente Amy Adams a proferire le parole: “Il Vicepresidente non conta nulla, aspetta solo che il Presidente muoia“. Non fu così per Dick Cheney, interpretato da un Christian Bale all’ennesimo, estremo lavoro anche fisico sul personaggio. Visti in coppia, W. di Oliver Stone e Vice di Adam McKay costituiscono un perfetto, pedagogico binomio di pellicole complementari, dove l’una riempie o spiega ciò che l’altra accenna di sfuggita, ripercorrendo spesso scene e momenti della Presidenza di George Bush – qui interpretato da un tontissimo Sam Rockwell – pressoché identici. Non solo le storie dei due protagonisti si somigliano: alcolizzati, rinati, petrolieri, innamorati delle rispettive mogli; ma se si sperimentasse un ipotetico montaggio di quattro ore, intervallando ora le spiegazioni di un film ora quelle dell’altro – e McKay sarebbe perfettamente in grado di farlo – il risultato sarebbe quanto di più chiaro il cinema d’inchiesta abbia partorito su quella fetta di storia americana.

Due esempi, per farsi un’idea. In una scena di W. in cui, fra l’altro, Bush intima a Cheney di non stargli “col fiato sul collo, sono io che comando” – lasciando intuire l’influenza del secondo sul primo – si cita di sfuggita un documento che autorizza gli Stati Uniti a tecniche di interrogatorio potenziato. Quel fascicolo, più tristemente rinomato come Memorandum della Tortura, viene ripreso da McKay – in una di quelle scene metaforiche con Alfred Molina – con una più approfondita denuncia delle violazioni dei diritti umani perpetrate dagli USA in carceri come Guantanamo e Abu Ghraib. Più avanti si affrontano i contatti di Cheney con le multinazionali del petrolio per la spartizione dei pozzi in Iraq: lo stesso Moore in Farenheit 9/11 aveva svelato gli inquietanti investimenti dei Bin Laden nella Arbusto Company, la società petrolifera di Bush. Infine il retroscena più impensabile di tutti, quel famoso altro errore di valutazione che sarebbe costato caro.

Nella famosa scena madre di W., Cheney sfrutta come pretesto per l’invasione in Iraq un rapporto – non verificato – secondo cui Saddam sarebbe stato in contatto con un gruppo di terroristi iracheni guidati da un certo Al-Zarqawi, a sua volta in contatto con Bin Laden. Questo è l’unico collegamento in possesso della CIA fra Afghanistan e Iraq. Peccato che i due – riprende McKay – non fossero affatto alleati, semmai – si suggerisce – nemici; e che proprio il pugno di ferro di Saddam tenesse a bada i movimenti jihadisti; mentre fu l’invasione a rinsaldarli fra loro, spingendo Bin Laden a nominare Al-Zarqawi – fino ad allora un signor nessuno – suo luogotenente in Iraq. Grazie a questo, e grazie alla visibilità datagli proprio dagli americani e al vuoto di potere lasciato dalla morte di Saddam, Zarqawi avrebbe fondato (udite udite) lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante: l’ISIS!. In altre parole, come per i talebani in Afghanistan, la guerra che avrebbe dovuto sconfiggere il terrorismo fu proprio quella che produsse uno dei più forti e coesi gruppi islamisti della storia recente, causa di conflitti collaterali in Siria, Libia e chissà quanti altri Paesi. Vent’anni dopo, con l’Afghanistan sguarnito già dopo un anno di combattimenti – in Vice viene affrontata anche questa conseguenza della Guerra in Iraq – e i talebani mai veramente sconfitti, i guasti si vedono.

In conclusione: molte, troppe le semplificazioni e i passaggi qui taciuti di una fetta di storia che richiederebbe un’enciclopedia, ma che Oliver StoneAdam McKay (più il bonus di Michael Moore) hanno saputo concentrare in due pellicole quasi perfette, capaci di regalare un affresco a tratti più lucido e sincero di un manuale di storia – pur appoggiandosi a documenti comprovati. Certo, i film romanzano, questo si sa: ma forse, di fronte a un quadro già di per sé impensabile, ben oltre l’avvicente, non serve romanzare niente, basta raccontarlo così com’è.

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