Il primo maggio di ottantadue anni fa è uscito un film che ha fatto la storia del cinema. Stiamo parlando del celebre Quarto potere, il primo lungometraggio di Orson Welles. Il regista non lo ha solo diretto, ma anche scritto, interpretato da attore protagonista e prodotto, all’età di soli ventisei anni.
Sembra incredibile come la casa di produzione RKO gli concesse un contratto da un film all’anno, da ideare e dirigere con la massima libertà creativa. Il tutto a seguito esclusivamente de La guerra dei mondi, quando aveva solo ventitré anni. Lo spettacolo radiofonico mandò nel panico milioni di statunitensi, facendo credere alla popolazione di essere sotto l’attacco di una specie aliena. Il giovane cineasta ha realizzato uno dei film più acclamati dalla critica che, in buona parte, lo ha ritenuto il film più influente di sempre.
La rivoluzione narrativa

Ma perché Quarto potere è da molti considerato il miglior film di tutti i tempi? Per quanto di per sé, questa sia una concezione considerabile azzardata, la pellicola del ’41 ha sicuramente sovvertito alcune delle regole cardine all’interno delle narrazioni cinematografiche fino a quel momento.
In un certo senso, portata all’estremo la provocazione, si potrebbe quasi dire che quel sovvertimento di regole abbia portato all’affermazione stessa dell’assenza di una regola inamovibile. Rompere delle regole – anche se per costruirne altre – significa accettare l’idea che non vi sia alcuna regola. Che un domani, qualcuno, possa fare con noi ciò che noi abbiamo fatto con qualcun altro. È un po’ il grande ciclo dell’arte, più che mai quella d’avanguardia.
Immaginate se oggi, nel 2023, avessimo l’onore di colloquiare con Welles e gli chiedessimo se è vero che nel cinema non esistono regole. Cosa ci risponderebbe? Probabilmente si farebbe una grossa risata. Nonostante Welles abbia effettivamente portato delle novità, il suo intento non era quello di eliminare le regole del cinema, ma semplicemente di passare da un sistema normato a un altro.
Un po’ come è sempre accaduto con le Avanguardie nelle diverse declinazioni dell’arte. Ognuna di esse ha abbattuto dei canoni e ne ha portati altri, ma vi è rimasta poi vincolata, con la pretesa che questi appena introdotti diventassero quelli stabili, senza rendersi conto che anche questi standard sarebbero stati prima o poi abbattuti. Anche Welles ha dato vita alle proprie cifre stilistiche, rivoluzionando non solo il modo di raccontare le storie sul grande schermo, ma anche quello di rappresentarle scenicamente. Per questo viene considerato il suo capolavoro.
Flashback e focalizzazione

Orson Welles ha abbattuto, innanzitutto, quel sistema di regole tradizionalmente applicate in scrittura. Con la sua sceneggiatura – sua, e del troppo spesso dimenticato Herman J. Mankievicz – il regista sceglie di operare una rottura con il cinema classico, caratterizzato dalla linearità aristotelica del racconto, basata sulla causalità e consequenzialità degli eventi in modo ordinato e diviso in tre atti.
Quarto potere abbatte quello che era stato, fino ad allora, il principio compositivo convenzionale della struttura narrativa al cinema, abbracciando così una drammaturgia dalla matrice barocca. Il cineasta decide di strutturare un intreccio basato su diversi livelli temporali con una trama caratterizzata da continui flashback (o meglio il presente narrativo non coincide con quello del protagonista) per far luce sulla vita del protagonista. Rispetto alla tendenza del cinema classico di raccontare la storia dal solo punto di vista del protagonista, Welles si avvale della visione pluriprospettica – e per questo fallibile, di cui reindagare costantemente la veridicità – dei personaggi con cui il del giornalista interpretato da William Alland si interfaccia nel racconto.
Quarto potere e il mockumentary

Quarto potere ha rappresentato un vero e proprio fiume di novità. Welles è l’esempio lampante di come le regole possano essere sovvertite. Il regista è stato capace di dar vita ad un capolavoro, riuscendo ad esplorare e unire sul grande schermo alcune scene dal valore semantico opposto.
Infatti, il regista riesce a muoversi tra immagini di finto stampo giornalistico e documentaristico contrapposte a quelle di pura narrazione. All’inizio del film, viene mostrato il servizio che verrà trasmesso dal cinegiornale che racconta la storia di Charles Foster Kane. Qualcosa di inedito e che ha posto le basi per quello che molti anni dopo sarebbe stato definito come il mockumentary. Lui stesso nel ‘73 realizza una pellicola del genere, dal titolo F come falso.
Il MacGuffin

Ma qual è il vero motore del film? Il pretesto dell’intreccio è senza dubbio “Rosabella”. La parola che Kane pronuncia in punto di morte nella scena iniziale. Il compito del giornalista Jerry è proprio quello di scoprirne il significato per poter completare il documentario. Rosabella può sembrare una prima forma di MacGuffin, l’espediente narrativo successivamente utilizzato da svariati grandi registi – basti pensare alla busta con i soldi in Psyco o la valigetta in Pulp Fiction – ma con la sostanziale differenza che questi oggetti non avevano alcun valore effettivo, se non quello enfatico. Rosabella invece, si scopre nel finale, è la rappresentazione della sua infanzia felice, che non tornerà mai.
Ma non rappresenta solo quello. Rappresenta anche il fallimento. Infatti per la prima volta al cinema, il personaggio “protagonista” delle ricerche nel presente narrativo, Jerry, non riesce a venirne a capo. La soluzione del mistero è concessa solo al pubblico. Un risvolto che il cinema classico non si era e non si sarebbe mai permesso.
La rivoluzione tecnica

Dove eravamo rimasti? Ah sì, con la risata a trentasei denti di Welles. Non demordiamo e continuiamo ad insistere. Gli domandiamo se ricorda il fatto che lui stesso era stato accusato di non saper girare ai tempi, proprio da coloro che imponevano il modo “corretto” in cui farlo. Se oggi vedesse un giovane regista abbattere le sue stesse regole, come la prenderebbe? Forse male.
Tornando agli anni ’40, il regista del Wisconsin non ha solo cambiato il modo di narrare sul piano della scrittura, ma anche da quello prettamente estetico e visivo. Saper raccontare al cinema presuppone anche la capacità di dar forma alla storia. E in Quarto Potere si notano sostanziali cambiamenti della regia e della messinscena rispetto ai film coetanei e precedenti ad esso.
La profondità di campo in Quarto potere

Il film gioiello di Orson Welles rompe gli schemi e i rapporti con il cinema classico, caratterizzato fin da subito dal notevole equilibrio compositivo e visivo, fondato sulla verosimiglianza spaziale in cui opera il personaggio. Uno degli obiettivi e delle regole imprescindibili del cinema classico è sempre stato quello di non permettere allo spettatore di distrarsi, ma farlo focalizzare sul soggetto protagonista all’interno della scena.
Quarto potere, invece, attua visivamente un vero e proprio ridimensionamento della figura umana, che, adesso, conta tanto quanto l’ambiente in cui si muove. Per farlo, il regista usa per la prima volta la profondità di campo, avvalendosi di grandangolari in modo ripetuto, incidendo in modo significativo sulla fotografia, curata da Gregg Toland. Così facendo, il pubblico in sala non mette a fuoco in modo immediato i personaggi inquadrati, ma ha un’immagine della scena nel suo complesso.
I piani sequenza

Tra le varie esplorazioni di Welles in Quarto potere, troviamo anche quella del piano sequenza. Parliamo della tecnica cinematografica che consiste nel dar vita a una sequenza più o meno lunga, utilizzando una singola ripresa, senza stacchi, ed escludendo in questa maniera il montaggio. Così come la profondità di campo opera sulla dimensione spaziale, questa lo fa su quella temporale.
Ancor più utilizzato dal giovane artista, e sempre in modo sperimentale, è stato il long take, simile al piano sequenza, ma che si occupa solo di una parte della sequenza e non della sua totalità come nel primo caso. Il long take va quindi integrato con altre inquadrature che completino il blocco narrativo. Le tecniche del regista influenzeranno vari movimenti, tra cui la Nouvelle Vague.
L’illuminotecnica in Quarto potere

Nella rappresentazione scenica del lungometraggio, Orson Welles si cimenta anche in un particolare uso dell’illuminotecnica. Per farlo, si appoggia ancora una volta al direttore della fotografia Toland e alla sua fama di anticonformista. Quest’ultimo sfruttò a sua volta la totale libertà artistica lasciata dalla RKO per la realizzazione del film. Il risultato ottenuto è quello di immagini particolarmente chiaroscurate e dal forte contrasto tra il bianco e il nero.
Insomma, lo stesso signor Welles che ottantadue anni fa ha suscitato scalpore tra i cineasti dell’epoca con Quarto potere, probabilmente oggi screditerebbe un giovane regista alle prime armi che ha l’obiettivo di superare le regole imposte da un gigante come lui. Come un cane che si morde la coda. Sicuramente è più semplice essere colui che rivoluziona, piuttosto che essere “vittima” della rivoluzione di un altro.