Verità, assenze e onore nel cinema Asghar Farhadi

Era il 2012 quando Una separazione otteneva il premio Oscar per il miglior film straniero e apriva alle porte del grande pubblico occidentale la cinematografia di un regista che sin dai primi anni 2000 stava perseguendo un personalissimo percorso artistico che sarebbe andato a rinnovare e a rimpiazzare, di fatto, le varie influenze della cosiddetta new wave iraniana per arrivare a imporre un nuovo modo di fare cinema in Iran: Asghar Farhadi.

Oggi, nel 2022, a seguito dell’arrivo di Un eroe nelle sale italiane, previsto per il 3 gennaio, e del suo successo a Cannes, siamo chiamati a considerare l’impatto che un regista come Farhadi ha avuto non solo nel suo paese, dove è considerato una star, ma anche in tutti gli altri paesi della vicina Asia e, anche, in Europa, dove sono fioccati, negli ultimi dieci anni, moltissimi film che la critica si è apprestata ad accogliere con l’aggettivo “farhadiano”, testimonianza di un autore con una poetica estremamente riconoscibile in grado di superare qualsiasi barriera; sia essa linguistica, politica e culturale.

Dal dramma borghese al cinema

La protagonista di Fireworks Wednesday
Immagine da FIreworks Wednesday (2006)

Il fondamento del successo del cinema di Asghar Farhadi va ricercato innanzitutto nella formazione del regista, che si trovò obbligato a dover seguire, suo malgrado, l’indirizzo di teatro nell’Università di Teheran ed ebbe modo di studiare e far propri tutti i maestri del dramma borghese. Proprio questi maestri, i cui nomi vanno da Ibsen a Cechov a Pirandello, sono le pietre miliari del suo cinema, un cinema borghese nel pieno senso del termine, a differenza di quello di altri suoi illustri connazionali come Abbas Kiarostami, Jafar Panahi o Majid Majidi, che si è sempre configurato come una potentissima arma di analisi della borghesia iraniana, da un lato estremamente moderna e dall’altro ancorata a concezioni morali che non riescono a trovare spazio senza risultare devastanti per l’ambiente che le ospita.

Tutto ciò porta, naturalmente, a film ricchissimi di dialoghi, che coinvolgono inizialmente pochi personaggi per poi lentamente allargare la rete e intromettere nella narrazione dei terzi destabilizzanti in grado di far cedere, sia con la propria presenza sia con la propria assenza, il già fragile equilibrio di partenza.
E’ il caso di Fireworks Wednesday, in cui la protagonista del film si inserisce, per motivi di lavoro, nella vita di una coppia sull’orlo di una crisi a causa di un marito sospettato di tradimento dalla moglie. La presenza di un personaggio estraneo alla coppia in casa diventa la miccia per far saltare il castello di carte e svelare “la verità” che si cela dietro al muro di reticenze, ma i risultati del turbamento del fragile equilibrio non possono che essere devastanti.

Assenze che si fanno presenze destabilizzanti

Tahar Rahim e Berenice BejoFilm di assenze destabilizzanti sono invece About Elly, Il passato (girato in Francia con cast internazionale) e Il cliente (secondo Oscar per Asghar Farhadi). Se nel primo film la scomparsa, improvvisa e apparentemente inspiegabile, della maestra d’asilo Elly che ha accettato di andare in vacanza con le famiglie di alcuni suoi alunni, avvia un concatenamento di eventi che porta a far esplodere tutti i rancori sopiti delle “borghesissime” famiglie con cui si trovava e a innestare la ricerca di un altro assente, il ragazzo di lei, in Il passato e Il cliente il terzo assente, o meglio, i terzi assenti diventano dei veri e propri fantasmi che tormentano i protagonisti e che li portano fino al logoramento nervoso.

Mentre in Il passato la presenza-assenza di una moglie in coma dopo aver tentato il suicidio per cause non del tutto note funge da meccanismo scatenante per costruire le complesse psicologie dei personaggi di Samir (Tahar Rahim) e del figlio Fouad (Elyes Aguis), in Il cliente l’assenza di due personaggi come la donna che abitava prima della coppia protagonista e il suo cliente è il motore per un evento drammatico che porta porta quasi al collasso la relazione fra i due protagonisti.
Forse non è un caso che sia About Elly, sia Il passato, sia Il cliente abbiano negli stessi titoli il riferimento a un qualcosa che c’è stato e che ormai non c’è più. Un qualcosa di assente che fa da perno drammatico, potremmo dire quasi da protagonista, della vicenda.

L’impossibilità del cinema e della realtà di cogliere la verità

La protagonista di About Elly
Immagine da About Elly (2009)

Quelle di Asghar Farhadi sono storie che seguono dei meccanismi drammaturgici perfetti, diventando delle vere e proprie bombe ad orologeria pronte a detonare e a mettere in moto tutta una serie di conseguenze apparentemente inaspettate.
Spesso i film di Farhadi vengono presentati al grande pubblico come dei thriller proprio perchè il regista è abilissimo a costruire una tensione sempre più crescente e a disseminare nel corso dei suoi film tutta una serie di ribaltamenti, dei colpi di scena, che fanno mutare rapidamente la prospettiva e cambiare il punto di vista di personaggi e spettatore sugli eventi messi in scena.

Ciò avviene non solo grazie alla precisione delle sceneggiature di Farhadi, ma anche grazie a una macchina da presa che segue oggettivamente e dinamicamente il susseguirsi dei dialoghi e a un’istanza narrante apparentemente onniscente che si fa reticente proprio nei momenti in cui deve esporre e mostrare l’evento scatenante che fa cadere le varie tessere del domino accuratamente disseminate nello spazio.
La scomparsa di Elly in About Elly, la colluttazione fatale in Una separazione, la violenza in Il cliente, non vengono mostrate chiaramente dalla macchina da presa. E’ proprio in questi spazi confusi e lacunosi che si insediano e si sviluppano i drammi di Farhadi.
Forse è proprio l’annullamento dell’oggettività dell’immagine e del montaggio audiovisivo il maggior lascito di Abbas Kiarostami per il cinema di Asghar Farhadi.

Gli spazi lasciati vuoti servono al regista per focalizzarsi e sviluppare i discorsi sulla verità, vero e proprio mostro proteiforme capace di assumere le più varie sembianze, liquido in grado di prendere la forma di ogni ambiente che la ospita (nella fattispecie gli uomini), sempre pronta a essere messa in discussione anche quando tutto sembra sancirla tale. Nei film di Asghar Farhadi vengono opposti vari personaggi con cui lo spettatore è chiamato a immedesimarsi o a parteggiare, personaggi che agiscono nel giusto, nella convinzione che la verità sia dalla loro parte. Eppure dei gesti, delle parole apparentemente insignificanti o eventi di minor conto dimenticati sono sempre in grado di appannare l’apparente trasparenza delle loro posizioni per aprire spiragli ad altre verità pronte a subentrare e a destabilizarli.

L’onore, l’ultimo e più grande ostacolo: da About Elly a Un eroe

Il protagonista di Un eroe
Immagine da Un eroe, nelle sale italiane dal 3 gennaio

A causare destabilizzazione, per i personaggi maschili, presenti in tutti i film di Asghar Farhadi, è anche il motivo dell’onore, motivo che subentra spesso in extremis, quando la vicenda sembra giungere a conclusione e non serve far altro che aggiungere una carta per ricomporre il castello precedentemente saltato.
Questo topos, presente in tutti i film girati in Iran dal regista negli ultimi dieci anni, è solo uno dei tanti a essere riproposti in Un eroe, il suo ultimo film vincitore Grand Prix speciale della Giuria a Cannes e in corsa per l’Oscar al miglior film straniero.

Un eroe è la storia di un carcerato, Rahim, che durante un permesso premio ritrova una borsa con dentro alcune monete d’oro e decide di rintracciare la proprietaria per restituirgliela. Questo apparentemente spontaneo gesto di civiltà causerà tutta una serie di conseguenze che arriveranno a travolgerlo.
Tutti i temi ricorrenti del cinema di Asghar Farhadi vengono, in Un eroe, portati alle conseguenze più estreme e radicali. Risultato di ciò è un film che indaga, ancora una volta, il concetto di verità fino ad arrivare a misurarsi con la post-verità e con i risultati che essa produce sulla moltitudine.
La parabola di Rahim si consuma non più solo ed esclusivamente nella sua sfera privata o in una ristretta cerchia di persone, ma anche, per la prima volta nel cinema di Farhadi, all’interno di una collettività a cui deve, volente o nolente, rendere conto.

L’impianto narrativo costruito dal regista iraniano in Un eroe è, come al solito, perfetto e ritorna anche qui il meccanismo della presenza-assenza di un personaggio, la donna a cui dovrebbe appartenere la borsa, che fa scattare e condiziona tutti gli eventi.
Anche questo elemento viene estremamente amplificato nel nuovo film di Asghar Farhadi e il dramma tipicamente borghese, privato e proprio per questo universale, solito del regista iraniano diventa forse per la prima volta esplicitamente specchio della contradditorietà di una nazione come l’Iran, che non è poi così diversa dall’Occidente nel suo vivere l’interconnessione il bombardamento di informazioni propri dei nuovi media e nell’elevare personaggi sconosciuti al rango di divinità salvo poi abbatterli quando nuove evidenze sembrano condannarli.

Anche il concetto stesso dell’onore viene portato a conseguenze irreversibili. Un eroe è probabilmente, assieme ad About Elly, il film in cui questo tema viene approfondito maggiormente e portato a sviluppi drastici. Può non essere un caso, forse, che proprio i film in cui il regista insiste maggiormente sulla questione sono anche i suoi film più pessimisti. Come in About Elly e non invece in Il cliente e Una separazione, infatti, in Un eroe l’onore viene connesso con la dignità: il risultato di ciò è però destinato a essere tragico.

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