Cannes 75 ha avuto un apice, che è coinciso con la vittoria della Palma d’Oro: la proiezione di Triangle of Sadness. Gli applausi scroscianti e le risate liberatorie del pubblico della Debussy non si sono arrestati con la chiusura del Festival. Il film, infatti, ha continuato a riscuotere successi con l’uscita in sala: tre nomination agli Oscar, due ai Golden Globe. Ora arriva in streaming su MUBI e, prima di (ri)vederlo, abbiamo pensato di rileggere quel libro famoso di William Golding, Il signore delle mosche. C’è un perché.
Per la ruga dei guai il Botox non basta

Il “triangolo della tristezza” del titolo è lo spazio fra le sopracciglia, che si inarca quando siamo preoccupati o in tensione. In Svezia lo chiamano anche “ruga dei guai” e pare che la sua incisività sia un metro per stabilire quante battaglie e ansie abbia vissuto il viso in questione.
Durante l’intera durata di Triangle of Sadness probabilmente il nostro sguardo è corrucciato, perché il film ci pone davanti a questioni ed amare verità che, ad uno spirito attento, destano profonde preoccupazioni. E la denuncia del regista Ruben Östlund pare essere proprio questa: nella nostra società dell’apparenza, per quanto possiamo ricorrere alla chirurgia estetica dell’alta moda per appianare quella ruga, le preoccupazioni che ci solcano il viso dovrebbero essere così tante da rendere vana ogni punturina.
E invece la corsa al Botox riparatore è ancora più forte della presa di coscienza (e quindi di posizione): in ogni yacht ipercontrollato, però, arriveranno tempeste, vomito e diarrea a costringere a fare i conti con le strutture e le dinamiche preoccupanti che zittiamo a suon di ostentazione e apparenza. Non c’è chirurgia estetica che tenga.
“So’ ragazzi”, e invece è Triangle of Sadness
E chi, nel 2022, fra yacht, ricchi oligarchi e influencer d’alta moda, ricorre alla chirurgia estetica sperando che insieme alla ruga scompaiano anche i guai che l’ha provocata; è lo stesso che davanti al libro del 1963 di Golding (dello stesso anno il primo adattamento cinematografico) diceva “è roba da ragazzi” oppure “i bambini giocano“.
La tentazione a minimizzare è servita tanto da Triangle of Sadness quanto da Il signore delle mosche. Entrambi gli autori ci provocano facendoci immedesimare in panni che non sono nostri, come se uscendo da noi stessi e proiettandoci dentro la grande metafora dello yacht o dell’isola sperduta, possiamo con maggiore lucidità rispecchiarci ed accorgerci delle deformazioni della nostra società. Cala la maschera, non siamo più né Carl e Yaya né Ralph e Piggy: siamo una società che funziona male e opere come queste servono a prenderci a schiaffi, se glielo permettiamo.
Golding e Östlund, come l’Italia in miniatura

Prima o dopo aver visto il film, non importa, quello che conta è che insieme all’ultimo lavoro di Östlund teniamo in mente anche il libro di Golding. Triangle of Sadness e Il signore delle mosche sono come prosciutto e formaggio: nel panino vanno insieme per dargli più sapore.
Un piccolo ripasso: Il signore delle mosche è la storia di un gruppo di adolescenti che sopravvive ad un disastro nucleare e finisce in un’isola deserta. Lì, per sopravvivere, cercano di riprodurre quelle istituzioni degli adulti, che tanto stimano e di cui ora sentono la mancanza. Scopriranno presto che il modo di fare degli adulti fuori dall’isola non è così sano come sembra, e infatti sull’isola dilagheranno dissapori e contrasti con esiti nient’affatto da bambini.
Quella di Golding, al pari di Östlund, è una riproduzione in scala della società. Come se andando all’ Italia in miniatura potessimo accorgerci con più obiettività che la Torre di Pisa è storta. Ecco, così guardando quei fac-simile di società ci viene data l’opportunità di studiarne meglio i difetti e le distorsioni organiche.
Il Signore delle mosche in Triangle of Sadness: il potere

Il libro di Golding si intitola in quel modo perché sull’isola c’è un nemico. Quel nemico orwelliano immaginario di cui l’umanità ha bisogno per compattarsi. Nel caso dei bambini si tratta di un totem, che chiamano “signore delle mosche” e l’illusione della sua minaccia è inizialmente l’oppio per i tentativi scorretti di affermazione sugli altri; poi il diversivo pericoloso che, fomentato, fa perdere di vista l’obiettivo della salvezza.
Tanto nel libro, “personificato”, quanto in Triangle of Sadness il vero “signore delle mosche” è più pericoloso di ogni uomo delle foreste: il potere. E soprattutto la mancata capacità di considerarlo. Da entrambe le opere emerge la differenza madornale fra capo e leader. Il capo distrugge l’equilibrio per obiettivi istantanei, egoistici; il leader tenta con tutte le sue forze di instaurare un sistema di leggi, da rispettare per una convivenza a lungo termine.
Homo homini lupus

Le leggi, il rispetto: per i capi sono di troppo, perché basterebbero la forza e gli obblighi. Ecco i ricconi sullo yacht che ordinano, e i membri dell’equipaggio, soldatini che odorano di una tremenda Germania, che univocamente eseguono. Sono i bambini che sotto a Jack subiscono il peso del “capo”, e senza rendersene conto, affascinati dalle promesse, a pecoroni lo incitano.
Jack de Il signore delle mosche ha qualcosa in comune anche con Abigail, nell’ultima parte di Triangle of Sadness, quella in cui gli echi goldingiani sono più a portata di mano perché è ambientata su un’isola. La degenerazione della forza di Jack (e di Abigail) sono infatti il frutto di una riappropriazione del potere: diventano potenti in seconda battuta, dopo essere stati subordinati. E rappresentano il rancore, la vendetta. Un gioco di rovesciamenti che in questo periodo fa parlare di sè tramite Barbie (qui la nostra recensione): che siano le donne o siano i Ken a governare Barbieland, entrambi si approfittano della supremazia e tralasciano il benessere del gruppo subordinato. Questo è il disclaimer di Golding e Östlund: homo homini lupus, diceva Hobbes.
Una conchiglia da afferrare per avere la parola, il tentativo di costituire un’assemblea eterogenea ma compatta, e soprattutto il rispetto delle leggi: questi desideri ci inteneriscono quasi come qualsiasi altro intento dei bambini. Sarebbe infatti così semplice, così alla portata di tutti, che Il signore delle mosche potrebbe terminare dopo 30 pagine, con l’armonia dell’isola. Invece abbiamo bisogno ancora di Triangle of Sadness, per corrucciare le rughe, vedere davvero la merda di cui siamo capaci e ragionare su cosa significa la parola “privilegio”.