“The Shape of Water” dopo il Leone d’Oro a Venezia ha ricevuto 13 candidature agli Oscar, e sembra il favorito per la vittoria del titolo di Miglior Film.
Comincia come una fiaba “The Shape of Water“, con una voice over che narra di un amore antico ed un lento movimento di macchina che si insinua in una stanza e svela le forme (shapes, appunto) di una storia sommersa dall’acqua. Suona la sveglia, la stanza si asciuga: è ancora una volta un orologio, come ne “Il Labirinto del Fauno”, a riportare il racconto sul terreno della storia. Elisa, “la principessa senza voce”, comincia la propria routine, ma l’acqua già si ripresenta, nel pentolino dove bollono le uova e nella vasca da bagno dove si masturba. Con poche immagini Guillermo del Toro definisce già la felice discordia tra tangibilità e vaghezza, mette in scena un luogo “lontano da tutto il resto”, che ha un’intima consistenza di reale ma che, del reale, non è né imitazione né riflesso.
Se “La Spina del Diavolo“e “Il Labirinto del Fauno” innervavano i propri elementi magici e fantastici nel tessuto della guerra civile spagnola, l’ultimo film di del Toro (vincitore del Leone d’Oro a Venezia), si muove per la strade illuminate degli anni ’60, gonfie di insegne al neon e di cinema vuoti. Elisa è una ragazza muta che lavora come donna delle pulizie per un centro di ricerca americano che si contende il palcoscenico del progresso scientifico con i Russi. La tensione della guerra fredda e la compostezza di una nazione, irrigidita dalle proprie ambizioni, delineano i confini della normalità, fuori dai quali si collocano personaggi gravati da un forte senso di inadeguatezza: l’afroamericana Zelda (Octavia Spencer), l’omosessuale Giles (Richard Jenkins), Elisa (Sally Hawkins) e un mostro marino venerato dalle popolazioni amazzoniche (il fedelissimo Doug Jones).
Tutti personaggi emarginati, portatori di un senso di nostalgia amplificato dalle musiche di Alexander Desplat, che evocano la dolcezza eccentrica di Wes Anderson e riempiono i vuoti sonori lasciati dal mutismo di Elisa. Proprio la leggerezza dei dialoghi contribuisce a costruire un’atmosfera rarefatta, luogo ideale per ospitare gli omaggi e le ossessioni di del Toro, dal cinema classico ai vecchi horror della Universal. La creatura acquatica è un chiaro riferimento al “Il Mostro della Laguna Nera“, nonché un antenato di Abe Sapien, il tritone umanoide che compare in Hellboy. Ovviamente nulla fa pensare ad un collegamento, tanto più che oltre al design i due non condividono tratti comuni: Abe è un chiacchierone con sentimenti umani (e poteri telepatici), mentre l’anfibio in “The Shape of Water” è una semi-divinità animalesca, e il suo rapporto con Elisa ha una natura profondamente corporea. La violenza e il sesso (come sempre nel cinema di del Toro) fanno da contraltare alla delicatezza dei toni: Sally Hawkins si masturba e libera la propria sessualità in rapporti subacquei con la creatura, ma conserva comunque un candore che ricorda la purezza di Ofelia de “Il Labirinto del Fauno” ed esibisce una mostruosità che raramente è mai stata tanto bella.
Da una parte la diversità, dinamica e associata alle qualità trasformiste dell’acqua; dall’altra la rigidità del capo Strickland (interpretato da Micheal Shannon), che àncora la narrazione alle proprie coordinate politiche e sociali. Lui è il polo negativo, il cattivo senza sfumature dedito esclusivamente alle soddisfazioni terrene: egli desidera possedere una macchina nuova, incrementare la propria posizione professionale e soprattutto distruggere ciò che non comprende in nome di un conservatorismo esasperato. Il suo portamento sembra mimare i classici noir hollywoodiani, dai quali del Toro prende in prestito anche la forte illuminazione di stampo espressionista. La fotografia di Dan Laustsen (“Crimson Peak“) utilizza i lampioni e i fari delle auto per esaltare gli ambienti umidi, ricoperti da gocce d’acqua e tinti di verde. I colori più caldi invece, tra tutti il rosso, emergono parallelamente alla passione, amorosa e violenta, e si canalizzano infine nel vestito acceso di Elisa.
“The Shape of Water”, che si fonda sui contrasti tematici e formali, si barcamena tra la decadenza di una società nostalgica e l’incanto, tra l’amore delicato di un cinema del passato e il sesso, tra chiarezza e confini sbiaditi. La fiaba di del Toro nasce in acqua e, assieme al mostro marino, sembra voler immergersi nuovamente nei propri abissi perché, come tutte le migliori fiabe, anche se legata ad un contesto storico, ha il sapore di un evento che dal tempo si sottrarrà sempre.