The Irishman: un testamento artistico in continuo divenire

Sic transit gloria mundi, com’è effimera la gloria del mondo; se di gloria si può parlare. Questo potrebbe essere il leitmotiv di The Irishman, ultima sofisticata pellicola di Martin Scorsese.
Gli attempati bravi ragazzi restano degli esteti sociali, manieristi dei rapporti tra persone, votati devotamente al solo ed unico dio denaro. La morte è il deterrente che sfruttano per tenere in piedi la loro società di rispetto e terrore. La morte stessa però si confermerà il più grande livellatore sociale, concedendosi senza troppa parsimonia anche a chi l’aveva avuta a lungo come alleata.

Scorsese è un verista?

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Frank “Irishman” Sheeran è un uomo come tanti, un sottopagato autista di camion. Vende abusivamente qualche partita di carne per sbarcare il lunario come può. Scoprendo di non avere alcuna remora morale, forse a causa di una guerra che ne ha irreversibilmente spogliato l’animo della sua umanità, decide che qualche furto, seppur sistematico, non sarebbe stato più sufficiente.
Prendendo a prestito il darwinismo sociale di Verga, Irishman si insinuerà nell’organizzazione criminale di Chicago cercando di affermare la sua posizione nella società. Differente contesto genera però il medesimo risultato: come prima di lui i Malavoglia (i più celebri tra i vinti di verghiana memoria) egli fallisce, e il male che ha fatto gli presenterà, seppur sotto altra forma, il conto.
La fatua credenza che un gangster possa uscire indenne da una vita di crimini in Scorsese non trova applicazione pratica. Il male è una macchia e, una volta sporcati, non esiste reversibilità: esso diviene il più severo degli esattori: Irishman spara, il male-gabelliere, seppur dopo molti anni, non esita a riscuotere.

Senilità riflessiva

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Come detto i protagonisti sono pressapoco i wiseguys di The Goodfellas che, abbandonata quella corazza di invulnerabilità dalla quale è tipico sentirsi protetti in età giovanile, realizzano essere ricoperti di carne, una scorza molto meno coriacea di quanto la giovane età avesse suggerito. Avidità e malvagità restano le stesse, ma subentra in ciascuno dei protagonisti una riflessività mai mostrata così a fondo prima d’ora. De Niro non è più il distruttivo Johnny Boy o l’imprevedibile Jimmy Conway: ora è un meditativo quanto spietato Irishman. Buoni e cattivi non sfuggono alla vecchiaia, né a ciò che essa comporta.

Salto nel passato

Visualizza immagine di origineRobert De Niro che esclama davanti ad uno specchio: “Stai parlando con me?” in Taxy Driver, il discorso prima della battaglia di Daniel Day Lewis in Gangs of New York, De Niro che fuma una sigaretta con sguardo sospettoso sulle note dei Cream in The Goodfellas o, nel medesimo film, Joe Pesci che chiede a Ray Liotta se lo trova buffo. Tutte queste sono solo parte delle scene consegnate da Scorsese all’immaginario collettivo come cult. The Irishman è un film per certi versi più omogeneo: non c’è univocità di polarizzazione verso alcune scene specifiche, l’andamento è estremamente lineare, i 209 minuti scorrono quasi senza nemmeno accorgensene. Le atmosfere poi tornano ad essere quelle classiche, le scene nei bar hanno un solo ed unico denominatore comune: il rosso. Da quello intenso di Mean Streets, a quello più porpora di The Goodfellas, a quello sfumato di The Irishman. Per Scorsese cambiano scelte e contenuti, ma la cornice che delimita l’azione dei personaggi è sempre la stessa.

Cifra stilistica della pellicola

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Il gradiente estetico di The Irishman mostra chiaramente la mano di Scorsese, pur con qualche differenza rispetto al passato.
Essendo presenti, per la prima volta, oltre 300 scene, il regista non si è affidato allo storyboard, decidendo di lavorare maggiormente sul posto, per creare le scene con l’aiuto degli attori stessi. Per fare ciò l’italo-americano si è ispirato a dei film già esistenti come Fronte del porto ad esempio, specialmente nelle inquadrature doppie dei dialoghi in macchina, La valle dell’Eden per le scene interne o ancora Fango sulle stelle per le scorribande notturne, come quella in cui spingono i taxy in mare.
Il fedele slow motion è sempre presente e viene usato con precisione e puntualità per conferire solennità alle scene in questione.
La scelta stilistica di in questa pellicola è evidente: il taglio è più documentaristico del solito e ben si sposa con il realismo da sempre messo davanti a tutto. Un esempio sono le indicazioni scritte di data, luogo e modalità con la quale sono stati uccisi i personaggi che vengono man mano presentati.

Scorsese gioca col tempo

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Attraverso l’ausilio della CGI e di altri accorgimenti, De Niro in particolare viene mostrato molto giovane, un po’ meno giovane o addirittura più vecchio di quella che è la sua reale età. Questi sbalzi temporali, uniti alla lunghezza della pellicola, avrebbero potuto disorientare la percezione della linea temporale da parte dello spettatore. Scorsese ha rimediato a ciò nella maniera più elegante possibile: la storia americana, mostrata attraverso radio, televisori (prima in bianco e nero poi a colori) e giornali, diviene Virgilio che guida Dante-spettatore. E così le elezioni di Kennedy, la sua morte, la baia dei porci, il caso Watergate, fanno da sfondo ad una storia che poi, in fin dei conti, è la causa scatenante di alcuni di tali eventi, seppur mai la troveremo sui libri di scuola.

Conclusione

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Per quanto vecchi, per quanto consapevoli, non si è mai davvero pronti alla morte. Dentro ciascuno di noi ci sarà sempre quell’afflato vitale che urla: “Voglio vivere, almeno un altro po’.”
Resta da solo Irishman, coerentemente con il suo vissuto. Già, perché non basta circondarsi di persone per fuggire la solitudine. Chiede inutilmente all’infermiera se riconosce l’uomo con lui in una vecchia fotografia, era Jimmy Hoffa, il suo amico, quello famoso quasi quanto Elvis. “Troppa acqua è passata sotto i ponti”, come dirà confessandosi al prete. È in ospizio Irishman, da solo. Chiede che non venga chiusa la porta. Quella richiesta gentile è l’ultimo disperato grido di aiuto, per restare ancora aggrappato al mondo, almeno un altro po’. Per poter ricordare i tempi passati quando ha voluto bene a tanti pur senza amare nessuno. La porta resta aperta e Irishman, forse, può sentirsi meno solo, sempre e rigorosamente, almeno un altro po’.

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