The Fabelmans: il cinema delle meraviglie raccontato dall’uomo delle meraviglie. Steven Spielberg, mai sazio di sfornare capolavori e arrivato a tanto così dall’Oscar a Miglior Film, l’anno scorso, per West Side Story, potrebbe vincerlo – dovrebbe vincerlo – per il suo capolavoro di autobiografia. Perché la vittoria del People Choice’s a Toronto lo rende il favorito naturale al podio degli Academy Awards, come vuole una vecchia statistica. E perché The Fabelmans è un po’ l’autobiografia di tutti noi e dell’ultimo mezzo secolo di grande schermo: è il motivo per cui amiamo il cinema.
Le anime del cinema di ieri e di oggi

“Quando l’orizzonte è in alto, è interessante. Quando l’orizzonte è in basso, è interessante. Quando l’orizzonte è in mezzo, è una palla mortale. Ora fuori dal mio cazzo di ufficio”.
Come The Fabelmans finisce, è tutto da scoprire. Vi bastino le parole di un collega e amico – quanto è importante condividere film così con le proprie persone – pronunciate nella commozione di un finale che ha aggiunto perfezione laddove perfezione non sembrava più possibile aggiungerla: “Che bello quando i film fanno questo“. Fanno questo a noi, al nostro cuore, alla nostra anima.
Come invece The Fabelmans inizia, è tutto un programma, la dichiarazione ideologica di un genio che da sempre ha compreso i due volti, l’uno indispensabile all’altro, del grande cinema. Inizia con l’alter-ego bambino di Spielberg che sta per vedere il suo primo film in sala. Papà Paul Dano (bravissimo), uomo di scienza, futuro informatico della Silicon Valley, gli spiega il Motion Capture, la persistenza della visione e tutti quei meccanismi che rendono possibile la visione di un film. Mamma Michelle Williams (bravissima), donna d’arte, ex pianista ormai devota alla famiglia, gli spiega che “i film sono sogni“. Entrambe le affermazioni sono vere, entrambe sono necessarie.
Così, dopo aver visto un treno che deraglia contro una macchina – tutto è iniziato con un treno, il cinema dei Lumière è iniziato con un treno, il Super 8 prodotto dalla Amblin iniziava con il deragliamento di un treno – il piccolo Spielberg decide di riprodurre quella scena con i modellini che ha a casa: e soprattutto, di riprenderla. E già qui si inizia a intravedere un cinema di espedienti, di modellini, di effetti speciali fisici e di riprese irripetibili, un po’ come Sergio Leone che sapeva di poter far saltare il ponte de Il Buono, Il Brutto, Il Cattivo una volta sola. One shot. Un cinema che ancora si pratica sui set odierni di Steven Spielberg.
Di tutte le meraviglie di The Fabelmans

Nelle mani di Steven Spielberg – un cantastorie, un Fabelman – la composizione di una scena e l’importanza conferita all’immagine (in senso complessivo, non nel singolo fotogramma) diventano ciò che più si avvicina a quella che chiamiamo “la magia del cinema” senza sapere davvero come spiegarla. E di scene cosi, The Fabelmans ne è disseminato. Una carovana di carrelli della spesa, che attraversano un incrocio nel mezzo di un tornado, sono la magia del cinema. Un gruppo di Goonies radunati intorno a un fuoco dell’Arizona, mentre cantano la sovietica Kalinka, sono la magia del cinema.
Ma soprattutto, è la magia del cinema questa madre che ha dovuto abbandonare una promettente carriera da pianista per badare ai figli. E che dopo anni viene chiamata per un’esibizione ma non vuole tagliarsi le belle unghie lunghe smaltate di rosso. Eccola, la magia del cinema, la magia di Steven Spielberg, la magia di The Fabelmans in tutta la sua semplicità e potenza: ticchettare di unghie rosse su tasti bianchi, una famiglia riunita intorno a un pianoforte e al suo stesso pilastro vivente, le stanze vuote invase dal coro di suoni. Il ricordo di una madre, nitido, dolce, commovente. L’effetto sullo spettatore, indescrivibile.
Ma ai ricordi familiari – quelli felici e quelli infelici – e alle fasi della sua crescita, Steven Spielberg mescola ovviamente l’altra autobiografia, quella del cineasta in erba, che si mette a girare i film con i compagni del liceo e degli scout. Che fora la pellicola in un film western per simulare i colpi di pistola. Che fa piangere un compagno sul set per ottenere la migliore direzione attori possibile. E poi ne fa piangere un altro, il bullo della scuola, perché semplicemente riprendendolo su schermo riesce a cogliere la sua vera essenza, a fargli ammettere che vorrebbe sentirsi qualcosa in più, del semplice bullo della scuola. Il cinema questo deve fare: abbattere i muri che ci ergiamo intorno per difenderci e mascherarci, e nel frattempo alzarne altri a creare un rifugio sicuro dentro cui sentirci protetti. Il cinema di Spielberg, questo fa.
Va’ e metti una sentinella

A un certo punto, quel padre scienziato che non sa più che fare col figlio d’arte, ormai completamente votato al cinema, gli dice: “Fai qualcosa di reale, di utile a qualcuno, come una patente“. Ma senza rendersene conto, ha appena descritto il cinema stesso. Perché il cinema è forse il più grande specchio del reale, la più grande patente per comprendere il mondo, per chi lo fa come per chi lo vede.
I film salvano, salvano le persone. Si fanno strumento di disvelamento e confronto, come dimostrerà una delle più sofferte parentesi familiari di Spielberg mostrate in The Fabelmans: catturano dove l’occhio non arriva, comunicano laddove le parole non bastano, sono mute, sono strozzate dal pianto. Ma soprattutto riavvicinano, perché permettono di perdonarci l’un l’altro, di tornare a condividere. The Fabelmans è un film che non si limita a parlare solo dell’amore di Spielberg per il cinema: ma di tutti noi, per il cinema.
Sono film come The Fabelmans, perle sempre più rare, a ricordarci perché siamo tutti qui, di fronte a queste scene, a sorriderne, a scriverne, a leggerne. E anche così, il più delle volte e questa più di tutte, non si riescono a spiegare. Perché davvero il grande cinema inizia dove le parole finiscono. E perché sì, amico mio, tu che mi stavi accanto in quella sala delle meraviglie e tu che leggi e sei pronto a entrarvi: “Che bello quando i film fanno questo“.
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