Con la fine della terza stagione, Ted Lasso saluta il Richmond e la serie che porta il suo nome dice addio agli appassionati. Un finale che raccoglie tutta la drammaticità delle tre stagioni, sempre senza prendersi troppo sul serio. Una lezione sul lasciare andare, sul mettere un punto: difficile da accettare nella vita; ma soprattutto poco chiaro a sceneggiatori e registi quando sulla scia del successo e della fortuna di un personaggio continuano fino a farlo scadere a non scrivere la parola “fine“.
Bill Lawrence e lo stesso interprete di Ted, Jason Sudeikis, invece hanno saputo dire basta, al momento giusto e nel modo giusto, il che pare sempre più difficile nel mondo delle serie tv. Ted Lasso è come la giusta quantità di birra mentre ceni con la pizza: non troppa da gonfiarti lo stomaco o ubriacarti, ma neanche così poca da aver bisogno dell’acqua. Il giusto, chapeau.
Ted Lasso è una moltitudine…
Se la portata dell’addio di Ted al Richmond (e quindi alla serie) è così ingombrante è perché il peso del personaggio lo è altrettanto. In una delle puntate finali l’allenatore dice alla squadra: “sono un tipo forte e silenzioso, quindi non lo vedrete [che qualcosa mi dispiace], ma sono anche rumoroso e debole perché come tutti gli esseri umani sono una moltitudine“. È il suo essere Ted ma anche tanti altri, e quindi tutti noi, che ci rende così faticoso salutarlo.
È tanti uomini, Ted, ma è anche nessuno che vorrebbe essere. Lo dice una scena nell’epilogo: mentre Trent Crimm, il giornalista, propone “The Ted way” come titolo del libro sul Richmond che sta scrivendo nel corso di tutta la stagione; Ted gli appunta sulla copertina delle bozze il senso della serie. “It’s not about me. It never was.” “Non è su di me, non lo è mai stato”: la serie è su tutti noi che in Ted ci rivediamo, non su di lui.
…ma è anche Prisencolinensinainciusol!
C’è una canzone di Adriano Celentano in Ted Lasso 3, ed è proprio Prisencolinensinainciusol: una traccia dal titolo incomprensibile e nosense, con un testo in una lingua inventata. E la serie che stiamo salutando gli assomiglia tantissimo: un titolo che non dice nulla finché non conosci l’uomo Ted Lasso; con un alfabeto sentimentale originale e unico; capace di parlare una lingua inedita nel mondo del calcio. Episodio dopo episodio quel TED LASSO gigantesco sulla copertina della serie si riempie sempre di più, diventa di un colore man a mano più vivido, acceso, carico. E più conosciamo Ted più capiamo due cose: perché è scritto così grande e soprattutto come possa bastare un solo nome a dare il titolo ad una serie.
Il calcio per chi non ama il calcio (ma non solo)

Ted Lasso è piaciuta, nel corso di questi tre anni, a tanti spettatori che col calcio non hanno nulla a che fare e neanche lo seguono. Eppure sulla carta è la storia di un club inglese che tenta la propria scalata verso la vittoria del campionato, con un allenatore che non conosce affatto il calcio. Il motivo per cui così tanti non addetti ai lavori hanno seguito Ted è che il calcio è un pretesto. E la serie fa esattamente quello che una serie tv dovrebbe fare: racconta una storia. Al pubblico che non si emoziona per un goal Ted piace perché è colpito da ciò che quella situazione – che qui è il calcio, ma poteva benissimo essere un ospedale (visto che Larwence è il creatore di Scrubs) o qualsiasi altra cosa – contiene. E contiene la gentilezza, l’empatia, gli attacchi di panico e il perdono.
C’è un però. Riuscire a rendere pretesto l’ambientazione di una serie non è così unico, è ciò che dovrebbero fare tutti. Ted Lasso però poggia i piedi su due staffe: gli appassionati di calcio, infatti, si innamorerebbero di Ted e del Richmond perché l’amore per quello sport è sì un pretesto, ma non solo. Rebecca in conferenza stampa parla dell’amore per il calcio, i fan vanno da Rebecca a ringraziarla perché hanno potuto sognare insieme al Richmond, il fenomeno-Zava rispecchia Ibrahimović, si parla di Super-lega che è dannatamente attuale nel mondo calcistico contemporaneo. Ecco come fa goal: il calcio è un pretesto per quanti se ne fregano del calcio, ma è una ragione in più per amare Ted per gli amanti dello sport col pallone.
Un rigore con la palla oltre la rete
Amanti o ignoranti del calcio, tutti finiamo dentro lo spogliatoio del Richmond alla fine. E mentre Ted ringrazia la squadra, nell’intervallo dell’ultima partita del campionato, pare proprio stia onorando noi spettatori, apprezzando la nostra pazienza nell’averlo seguito. Anziché uno squarcio sulla quarta parete diremmo che avviene un lancio della palla oltre la rete. Come quella dell’ultimo rigore di McAdoo. Un cerchio che si chiude: Ted Lasso è iniziata con un allenatore che prende in mano una squadra senza averlo mai fatto prima. Così il capitano tira per la prima volta nella sua carriera un rigore. Entrambi, due uomini che non hanno mai svolto quell’impresa ma cambiano la vita di tanti altri.
Come usciamo da quello spogliatoio? Con un pezzo strappato del cartellone con scritto “Believe!”, in tasca come un talismano perché Ted Lasso è come il sapore unico e riconoscibile del dolce di mamma per colazione.
Ted Lasso: grazie perché sei esistito e vaff*****o che stai finendo

Non è il calcio, non è il sentimentalismo; non sono le squadre né gli affari economici il fulcro di Ted Lasso. È il rapporto fra genitori e figli, più spesso fra padri e figli. E proprio quando la madre va a trovarlo, Ted la ringrazia e la manda a quel paese con un elenco di motivi speculari e complementari. La madre, con una lezione incredibile sulla genitorialità che colpisce pure chi è troppo giovane per essere genitore, gli dice che con i figli non si può vincere o perdere: si pareggia. E così termina Ted Lasso fra padri e figli: con una serie di pareggi. Di Nat, Jamie, Ted stesso. E Cat Stevens sullo sfondo.
Ora che è finita, per una volta non seguiamo il suo consiglio. Non facciamo i pesci rossi: non dimentichiamoci di Ted Lasso.