RECENSIONE (ASSOLUTAMENTE) NO SPOILER
C’è qualcosa di profondamente sbagliato in questa recensione. Su tutto, la fretta: l’impossibilità di lasciar depositare ed elaborare a mente lucida. Perché recensire Spider-Man: No Way Home a poche ore dalla visione è un compito davvero ingrato, fa semplicemente male.
Sarebbe come riavvolgere vent’anni di vita di una generazione. Bombardarla dei fantasmi che hanno costellato i suoi primi passi nel mondo dell’intrattenimento cinematografico. E poi chiederle, senza darle il tempo di asciugarsi le lacrime: “Descrivimi cos’hai provato, ma senza dirmi nulla (ovviamente)“. Noi faremo il possibile.
Lo Schiocco di Spider-Man: No Way Home

Da dove cominciare? Se parliamo di capsule del tempo, è ancora una volta il cinema a venirci in soccorso, anche se lontanissimo: “Quello che mi è più difficile è decidere cosa dirti e cosa non dirti“. Le parole sono quelle di Sarah Connor in Terminator, che con Spider-Man: No Way Home non c’entra niente. Ma il dubbio che ci attanaglia è lo stesso, identico.
Dobbiamo parlarvi di come questo terzo film sull’Uomo Ragno cominci laddove si era chiuso il precedente, con Peter Parker (Tom Holland) che vede la sua identità svelata al mondo intero da Mysterio (Jake Ghyllenaal)? Di come lui, indagato dalla polizia e assediato dai media, chieda al Doctor Strange (Benedict Cumberbatch) di far dimenticare a tutti la rivelazione? E di come l’incantesimo, fallito, dia vita al Multiverso, introducendo nel Marvel Cinematic Universe tutti i villan – o quasi – visti nelle precedenti saghe, per un totale di cinque film nel corso di circa vent’anni?
Della sinossi, già si sapeva tutto, troppo. Il resto, lo si deve vedere, lo si può solo provare: sulla propria pelle, sul proprio corpo attraversato da tutto un brivido per due ore e mezza di pellicola. Perché sì, Spider-Man: No Way Home potrebbe diventare il prossimo Avengers: Endgame per tanti motivi – emozioni, densità, botteghino (forse) – ma ce n’è uno su tutti. Quello Schiocco di Strange che in un istante ha resuscitato tutti i personaggi che hanno popolato le saghe di Sam Raimi e di Marc Webb: o forse solo una parte, quella deceduta, la metà cattiva.
Una sala piena di lacrime

Tre immagini colpiscono e persistono a lungo dopo la prima del film. Di quelle possiamo parlarvi, nella speranza che rendano l’idea dell’esperienza che è stata. Prima di entrare in sala, gli addetti alla sicurezza imbustano i telefoni, sigillano gli zaini: massima segretezza, nulla deve uscire da quella proiezione a parte le recensioni. In cambio, distribuiscono uno di quei gadget del merchandising, guilty pleasure delle anticipate stampa cui i giornalisti farebbero anche a meno. Stavolta si tratta di un antistress a forma di Spidey, uno di quelli in gommapiuma, che per quanto si possano stritolare tornano sempre alla loro silhouette originale. Azzeccatissimo.
Perché Spider-Man: No Way Home è certamente un film febbrile, che fra piani sequenza iniziali e pregi regististici sconosciuti alla Marvel – un punto a Jon Watts – ci proietta fin da subito in un tour de force al cardiopalma. Ma di una tensione tutta particolare. Quella di chi, già sapendo, rimane comunque spezzato in due, perché su quei volti e sulle loro storiche battute si è visto nascere, crescere, invecchiare. E mentre la voce di Green Goblin (Willem Dafoe) gli martella nella testa come farebbe con Norman Osborn, la bocca gli si asciuga, secca come la sabbia di Sandman (Thomas Haden Church). Un brivido gli corre lungo la schiena, come una scarica di Electro (Jamie Foxx), avvinghiandosi alla sua spina dorsale senza più lasciarla andare, anche dopo molte ore dalla fine del film, come i tentacoli del Dottor Octopus (Alfred Molina). E le lacrime scorrono a fiumi, tanti da ospitare un intero esercito di Lizard (Rhys Ifans).
La terza immagine non ha prezzo: in quella sala c’è il giornalismo cinematografico dell’Italia intera. Hanno fatto il tutto esaurito, quei critici barbosi, noiosi, apatici: noi compresi. Ma di fronte a certe immagini, quella sala di inamovibili e inflessibili, che mai si scompongono, regalano uno spettacolo simile al grande pubblico quando uscì Endgame: piangono, esultano, fanno il tifo, si abbracciano, si fanno prendere da risate isteriche, di chi non ci può credere pur aspettandoselo. E poi applaudono e imprecano nelle reveal scenes, come una scolaresca o una tifoseria, non staccando mai gli occhi dallo schermo neanche per raccogliere le mascelle, cadute a terra e finite chissà dove. Assieme agli antistress, che non torneranno mai alla forma originale.
Spider-Man: No Way Home, la clessidra dei cinecomic

A suo tempo, Avengers: Endgame fu un evento senza precedenti, che saltando da un film all’altro dell’MCU ripercorse, di fatto, dieci anni delle nostre vite di spettatori. Spider-Man: No Way Home porta questa operazione a un livello successivo, raddoppiando il suo bagaglio a un arco di vent’anni. Facendo i conti con certe pietre miliari – su tutte, la trilogia di Sam Raimi – che, ancora non lo sapevano, avrebbero cambiato per sempre il volto del cinecomic e del panorama cinematografico più in generale, mostrando la via. Non è questione se ci siano o meno Tobey Maguire e Andrew Garfield. O Tobey Garfield e Andrew Maguire. Potrebbe non esserci nessuno; o tutti i gusti (più uno). Perché bastano i cattivi – questi primi, iconici, indimenticabili cattivi – in un film che, nelle sue istanze moraleggianti, parla molto di loro.
Ricordandoci di come un villain sia effettivamente la nemesi di un supereroe: il suo opposto, il suo speculare, la sua versione sfortunata di un altro universo. Qualcuno che invece di essere morso da un ragno è caduto in una vasca piena di anguille: “Devi stare attento a dove cadi“, potresti diventare un Parker come un Osborn, sta tutto negli scherzi del destino. Forse allora, il vero eroe è colui che quei cattivi prova a curarli, invece di ucciderli. Poteva toccare a lui: in certi momenti, è toccato anche a lui. Forse i cattivi, in questo film e non solo, non sono così cattivi. E i buoni, scopriremo fra un po’ di tempo, non erano veramente quei buoni.
Pur con qualche pecca ormai insopprimibile in Casa Marvel – un po’ di didascalismo spiccio e un po’ di umorismo becero, decisamente fuori posto in mezzo a tante emozioni – e col dubbio che tutto questo ambaradàn e amarcord sia stato messo su da Feige (anche) per rendere canoniche saghe che non lo erano, Spider-Man: No Way Home rimane un evento senza precedenti. Un collo di bottiglia per la storia dei cinecomic, che ha fatto scorrere e incanalare fin qui le sabbie del tempo: facendoci i conti, facendoci pace. Per poi riaprirsi, da domani, nell’altra metà della clessidra, ancora tutta da riempire: “Sarà un nuovo inizio e staremo tutti insieme“.
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