Roma, la recensione del film di Alfonso Cuarón, vincitore del Leone d’oro al Festival di Venezia

Era dal 2001 che Alfonso Cuarón non tornava in Messico, almeno cinematograficamente. Dopo 17 anni, tre film e due Oscar, rieccolo nel suo paese natale, raccontato in uno dei film più densi visti alla Mostra del Cinema negli ultimi anni. Roma, nome di un quartiere di Città del Messico (nessun riferimento alla nostra capitale), è la storia, o meglio una porzione di storia di una famiglia borghese e di Cleo, loro domestica indio, nei primi anni ’70.

Sono tanti gli eventi che compongono questo ritratto familiare: un abbandono, una gravidanza, una morte; fulcro narrativo è Cleo, che porta all’interno del suddetto ritratto familiare una vicenda tutta femminile: la sua. Ma Roma è un gioco di scatole cinesi, e non si esaurisce nel raccontare una donna mentre racconta una famiglia. C’è un ulteriore insieme ancora più grande, quello nazionale. Perché tornando nella madre patria Cuarón sembra essersi posto come obiettivo principale quello di raccontare il Messico, e il suo ultimo film sembra proprio una sintesi della storia del paese, del suo passato e del suo presente (e magari pure del suo futuro, chissà dove vanno tutti quegli aerei che costantemente passano sullo schermo).

Nelle sue oltre due ore di durata, Cuarón sfiora numerosi avvenimenti della recente storia messicana, terremoti, rivolte studentesche, persino il Mundial del 1970 (e probabilmente se ne sfiorano tanti altri, invisibili ai nostri occhi stranieri), e tocca alcuni dei grandi problemi del paese (a partire dal gigantesco divario socioeconomico tra i quartieri ricchi e i villaggi poveri). È questo a rendere Roma un film tanto denso. Ci sono tre linee tematiche (femminile, familiare, storicopolita), ognuna metafora delle altre, e ognuna ricchissima di simboli. O, per meglio dire, di rimandi e riferimenti, perché forse di simboli non si tratta.

Roma

Questa densità, che compone un vero e proprio microuniverso (che poi nemmeno è così micro), può rendere complicata la visione. Potrebbe occorrere tempo per riuscire a entrare nella dimensione filmica, anche tanto, e finché non vi si riesce Roma può apparire un film macchinoso, o paradossalmente vuoto, visto che la sua complessità si cela sotto la superficie. Chi scrive ha impiegato quasi un’ora per riuscirci, un’ora in cui, banalmente, si è annoiato, perché non riusciva a comprendere fino in fondo il senso profondo di ciò che, lentamente, stava accadendo sullo schermo davanti ai suoi occhi. Poi, finalmente, si è ritrovato completamente immerso nel racconto e in quel Messico filmico, e tutto è stato diverso. Non è più stato mero spettatore della vita di Cleo, ma si è sentito al suo fianco, gioendo e soffrendo con lei, modesta eroina proletaria, comprendendo, attraverso la sua esistenza, la proteiforme natura del paese in cui lei vive.

Contraltare della complessità strutturale di Roma è la sua austerità stilistica. Per quanto interiormente ricco, la sua messa in scena è ridotta all’essenziale, a partire dalla (bellissima) fotografia in bianco e nero. Poche inquadrature, spesso molto lunghe, dove la macchina da presa si muove solo quando è necessario, e sempre seguendo traiettorie minimali e lineari. Dopotutto, Cuarón ha fatto un film molto personale: la scelta di raccontare il Messico parte probabilmente dalla necessità individuale di recuperare la propria identità attraverso (anche) la storia del proprio paese. Non è un caso, infatti, che qui Cuarón faccia quasi tutto. Oltre alla sceneggiatura e alla regia, è sua anche la fotografia, e si è occupato persino dell’edizione e del montaggio. Il personalismo (di Cuarón) che incontra l’identità collettiva (del Messico) è il perfetto riflesso dell’incontro tra una storia e la Storia che viene rappresentato nel film.

Alfonso Cuaron

Sono passati solo tre giorni dall’inizio del Festival, ed è davvero troppo presto per fare previsioni. Roma potrebbe però avere le carte in regola per portarsi a casa uno dei premi più importati. Forse il Leone d’argento (quello per la regia), o magari la Coppa Volpi per Yalitza Aparicio, la bravissima interprete di Cleo. Solo supposizioni, finora, ma non c’è dubbio che sarà difficile trovare altri film così complessi. Forse altrettanto belli sì, magari pure più belli (per ora si gioca il titolo di miglior film con The Favourite di Yorgos Lanthimos), ma una tale densità sarà difficile da eguagliare, nel bene (il fascino) e nel male (la difficoltà della visione).

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