All’ultimo Festival di Cannes, tenutosi a maggio di quest’anno, ancor più che l’inaspettata Palma d’Oro allo svedese The Square di Ruben Östlund, ha fatto scalpore che nessun premio sia stato assegnato a Happy End di Michael Haneke.
Il regista austriaco, infatti, è amatissimo in Francia, tant’è che i suoi due film precedenti avevano entrambi vinto la Palma: Amour nel 2012 e Il nastro bianco nel 2009. Nel 2005, invece, aveva ottenuto il premio al Miglior Regista per Niente da nascondere. Insomma, Haneke è una presenza fissa a Cannes, e la città provenzale è sempre stata generosa nei suoi confronti. Non a torto, dopotutto: Haneke è uno degli autori contemporanei più importanti nel panorama internazionale, e chiunque conosca anche il cinema meno commerciale sa quanto sia stato influente, e quanto lo sia ancora. Il suo modo gelido di mettere in scena una visione totalmente pessimistica della realtà ha fatto scuola, e i suoi imitatori sono innumerevoli (alcuni dei quali pure molto bravi, come Alexandros Avranas, Leone d’Argento per la regia a Venezia nel 2013 con Miss Violence).
Che quindi Haneke se ne sia tornato da Cannes a mani vuote è una notizia. Delle ragioni però ci sono; una in particolare: Happy End è forse il suo film meno riuscito finora. Questo non significa che sia da evitare, dopotutto di fronte a una produzione di così alto livello anche un’opera comunque discreta come questa finisce con lo sfigurare.
Happy End cerca di essere un racconto corale su una famiglia francese ricchissima ma sempre sull’orlo del collasso economico e psicologico, tra tradimenti, morti, tentati suicidi e incidenti. Qui sta il grande difetto del film, ed è strano a dirsi per un regista sempre così misurato come è Haneke: la narrazione, e con essa i suoi intenti, si perde continuamente in vicende poco interessanti o superficiali nel trattare alcuni dei problemi messi in scena (vedi la critica al web, fondamentale nell’economia del film ma mai davvero a segno). La struttura quasi a episodi (ogni membro della famiglia ha una propria vicenda che viene seguita dall’occhio della cinepresa) finisce così con l’offuscare l’elemento più riuscito di Happy End, il rapporto tra una bambina depressa e il nonno che non vuole più vivere, un rapporto nel quale si riesce a scorgere il meglio della poetica di Haneke. Tutto il suo cinismo e tutto il suo disprezzo per la natura individuale emergono con forza quando lo spettatore è messo innanzi a questo legame di fiducia nato dalla mancanza di umanità che accomuna i due personaggi, rendendoli l’uno lo specchio dell’altra (e qui Haneke prosegue tanti discorsi iniziati nella sua precedente filmografia, su tutti la critica spietata all’infanzia cominciata con Il nastro bianco).
A fare comunque di Happy End un unicum nella produzione del regista austriaco è la presenza di un elemento rarissimo nel suo cinema: l’ironia. Sia chiaro, non è una commedia, nemmeno una commedia nera, non è proprio un film divertente. Ma, a partire già dal titolo, Haneke sembra voler deridere le assurdità e le contraddizioni dell’essere umano, attraverso scene che, una dopo l’altra, diventano sempre più ridicole; o per meglio dire, mostrano sempre di più quanto ridicoli siano i personaggi. Per non soffrire e sorriderne bisogna però essere degli inguaribili cinici, capaci non solo di trovare il lato divertente nella tragedia umana, ma di farlo anche quando questa è messa in scena con il distacco tipico di Haneke.
Di qualità Happy End dunque ne ha (anche se parliamo di qualità che solo chi ama Haneke può apprezzare), ma, come detto, si perdono nell’insieme di un racconto che vuole essere corale ma riesce a rendere interessante solo una coppia di personaggi. Questo evidentemente è un grande limite per un film che ha una simile struttura, e il risultato complessivo ne risente non poco. Happy End allora è un’opera incompiuta, che sì porta avanti l’idea di cinema di Haneke e lo fa anche in maniera nuova, ma, per la prima volta, si ha l’impressione che il regista austriaco non riesca ad avere pieno controllo della sua materia, dalla quale solo a tratti si sprigiona il suo genio.
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