Peaky Blinders Stagione 6, la recensione: morte, saluti, eredità

Dopo una lunga attesa, aumentata dai problemi logistici legati alla pandemia, è finalmente arrivata la sesta stagione di Peaky Blinders. A seguito di una prima distribuzione “canonica” su BBC è poi giunta anche da noi in Italia a partire dal 10 giugno su Netflix. Prima di proseguire con la nostra recensione (senza spoiler) di Peaky Blinders Stagione 6 occorre fare una piccola premessa: non si tratta del vero e proprio finale della storia dei ragazzacci di Birmingham. Secondo quanto dichiarato dal creatore Steven Knight, verrà realizzato un film che chiuderà l’arco narrativo della famiglia Shelby. Quindi, almeno in teoria, siamo davanti all’ultima stagione della serie ma rivedremo ancora i Peaky Blinders.

Morte

Polly con cappello in Peaky Blinders

Tutta la struttura narrativa della sesta stagione di Peaky Blinders viene impostata nei primissimi minuti del primo episodio.
Avevamo lasciato Tommy Shelby che camminava in un campo puntandosi una pistola alla tempia e lì lo ritroviamo nell’apertura della sesta stagione. Scopriamo che dietro al mancato attentato ai danni di Oswald Mosley c’è l’IRA, favorevole all’ascesa fascista in Regno Unito. Una rappresentante dello stesso Irish Republican Army ha poi contattato Tommy rivendicando quanto accaduto e facendo recapitare a casa sua tre corpi: il cecchino Barney, Aberama Gold e Polly.
Uno degli interrogativi più diffusi tra gli appassionati di Peaky Blinders, era su come i creatori avrebbero affrontato la scomparsa Helen McCory, venuta a mancare il 16 aprile 2021. In che modo Knight e tutta la troupe si sarebbero approcciati all’argomento, dovendo per forza di cose giustificare in un qualche modo l’assenza di un personaggio centrale come Polly. A visione terminata, possiamo solo fare i complimenti alla serie. In simili e tristi occasioni raramente ci siamo trovati davanti a un lavoro di tale delicatezza ed eleganza. Tutta la stagione è un lungo addio a Helen McCory e alla sua Polly che pur non apparendo fisicamente (se non in un paio di flashback) viene menzionata praticamente in ogni episodio, divenendo motore invisibile e presenza cardine della serie tutta. Una lunga e splendida marcia funebre che parte proprio da quei primissimi minuti, avvolge tutti i personaggi, i dialoghi e le ambientazioni per poi trovare una catarsi sul finale. Un lavoro, da questo punto di vista, encomiabile.

Saluti

Tommy e Lizzie al Party dei fascisti

Finito il dialogo con la rappresentante dell’IRA la serie fa un balzo in avanti di quattro anni. Tommy ha smesso di bere, è ancora in politica e mantiene i suoi legami con Mosley. Parallelamente ha ampliato il commercio di Oppio e si prepara ad allargarlo ulteriormente cercando fortuna su suolo americano, precisamente a Boston. Il contatto è ovviamente quel Michael che diventerà, come già anticipato nella stagione precedente, un nemico e un ostacolo con cui fare presto o tardi i conti. Il figlio di Polly lo mette in contatto con lo zio di sua moglie. Si tratta di Jack Nelson, personaggio dichiaratamente ispirato a Joseph Kennedy Sr. (sì quel Kennedy, papà di quei Kennedy), uomo che gestisce il crimine a Boston, vicino al Presidente Roosevelt e molto interessato all’ascesa del nazismo e del fascismo in Europa. Buona parte dell’arco narrativo della sesta stagione di Peaky Blinders vede Tommy cercare di infiltrarsi, ancora per conto di Churchill, nel mondo fascista e quindi rapportarsi con Nelson, Mosley con la sua nuova moglie Diana Mitford e la stessa IRA.
Una volta terminata la stagione e arrivati ai saluti, ci si rende presto conto che non tutto ha funzionato alla perfezione a livello di intreccio. Per quanto da una parte la rappresentazione del fascismo che fornisce Peaky Blinders sia molto interessante, in particolare nel considerarlo un male supremo e superiore alla criminalità in ogni sua forma e facendo percepire la genuina paura che Tommy ha nei suoi confronti, si riscontrano sbavature nello svolgimento narrativo. La sensazione è quella che Knight abbia trovato delle difficoltà nel legare le varie sotto-trame e, arrivando ai titoli di coda dell’ultimo episodio, l’impressione è di trovarsi davanti non tanto un finale aperto quanto a una storia incompiuta.

Eredità

Tommy Shelby si punta la pistola alla testa

Ma allora cosa funziona in questa sesta stagione di Peaky Blinders? Semplice: tutto quello che ha sempre funzionato.
La serie ideata da Steven Knight non è certo diventata un cult negli anni per i suoi perfetti meccanismi narrativi. La “storia” e i suoi intrecci sono sempre stati più dei pretesti per poter raccontare i suoi meravigliosi personaggi, per dal libero sfogo a grandi interpretazioni e per rappresentare il tutto con il maggior grado di coolness possibile. Sotto tutti questi punti di vista questa sesta e ultima stagione è eccellente. La morte entra e si dipana in tutta la famiglia Shelby, costringendo Tommy a fare i conti con il fallimento, la mortalità e la sua eredità. Nel farlo eccelle ancora una volta Cillian Murphy, alle prese con l’ennesima interpretazione sontuosa nel rendere il suo capofamiglia più fragile grazie a piccoli gesti, piccole esplosioni in una generale e impressionante prova di sottrazione. Tutto il cast, ad esclusione del pessimo Finn Cole nei panni di Michael, è ai massimi livelli e regala nelle interazioni grandi momenti di televisione. In particolare le (non molte) scene che vedono dialogare Arthur (un sempre grande Paul Anderson) e Tommy sono splendide nel rendere uno spaccato umano ancor più toccante ed emotivo di quanto visto in precedenza. Tra i nuovi personaggi va poi segnalato in positivo quello della Diana Mitford di Amber Anderson, una spaventosa e conturbante Femme Fatale.
Nell’aprire i conti con la propria eredità Peaky Blinders decide anche di tornare alle sue radici, andando a riprendere e a diffondere come fumo tutta la spiritualità e le tradizioni Gipsy che Tommy stesso aveva perso con il passare degli anni. Una (ri)aggiunta molto gradita e funzionale nel mood generale della serie. Infine chiudiamo ribadendo l’altro grande punto di forza di Peaky Blinders, ovvero l’impianto estetico (e musicale). Alla regia di ogni episodio, così come nella quinta, abbiamo Anthony Byrne  che in questa ultima stagione si supera seguendo alla lettera la rule of cool. Il regista gira ogni singola inquadratura cercando di ottenere il maggior grado di coolness, inondando lo spettatore di zoommate, carrelli, dettagli, primissimi piani, senza mai però abbandonare quell’aria cupa e dark qua ancora più presente che nelle passate stagioni. Il tutto ovviamente accompagnato dalla solita splendida colonna sonora, nonostante in nessun episodio sia presente la storica sigla e solo in una occasione si può udire Red Right Hand nella versione di Patti Smith.

Comunque vada il proseguo e qualsiasi sia il risultato finale del film conclusivo non possiamo che ringraziare Peaky Blinders per tutto ciò che ci ha regalato in questi anni. Non potremo in alcun modo dimenticare la famiglia Shelby e quell’Inghilterra dipinta da Steven Knight. Un’eredità questa che difficilmente verrà raccolta.

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