Ozymandias, recensione dell’episodio più bello di Breaking Bad

<<Incontrai un viandante di una terra dell’antichità…>>, così si apre Ozymandias, la poesia più nota di Percy Shelley, poeta britannico vissuto a cavallo fra il XVIII ed il XIX secolo. Il sonetto tratta dell’incontro dell’io poetico con un viaggiatore proveniente da un non meglio specificato “deserto”. Qui giaceva una statua imponente di un sovrano del passato, le cui gambe erano la sola parte del corpo ancora in piedi. L’immenso volto dall’espressione austera e sogghignante stava per metà coperto dalle sabbie, in balia dell’usura del tempo. Sul piedistallo che reggeva i resti in rovina il viandante raccontava di aver letto: “Ozymandias, Re di tutti i Re. Ammirate, voi potenti, la mia opera e disperate!  Nonostante la solennità delle parole, tutt’intorno al rudere non vi era altro che il nulla. Tutto quello che rimaneva era un colosso in frantumi.

Rappresentazione grafica dell’Ozymandias di Shelley

L’amaramente ironica critica di Shelley verso la transitorietà del potere vedeva le stampe esattamente due secoli fa. Ha compiuto dieci anni lo scorso 20 gennaio, invece, l’opera magna di Vince Gilligan, Breaking Bad. Lo show che, da un quanto mai raro connubio critica-pubblico, viene considerato ancora oggi una delle vette della serialità televisiva. Il punto d’incontro fra questi due progetti artistici è datato 15 settembre 2013, giorno della trasmissione del terzultimo episodio della serie. Chiamato Ozymandias, per l’appunto.

C’è un motivo se, ad oggi, quasi cinque anni dopo il passaggio televisivo sulla AMC, questo capitolo detiene su IMDB una pazzesca media di 9,9 su 10, a fronte di oltre 90 mila voti lasciati dai frequentatori del sito.

Per cinque stagioni abbiamo visto il costante mutamento di Walter il quale andrà a raggiungere sembianze a noi sconosciute verso la fine della vicenda. La serie ha seguito lo stesso ritmo lento di una pentola d’acqua posta sul fornello. Ozymandias rappresenta il punto d’ebollizione tanto atteso. E si badi bene che non è casuale che l’episodio si apra proprio con tale processo. Questo è il momento della catarsi per l’(anti)eroe della narrazione: l’eliminazione del conflitto interiore cui segue la presa di coscienza delle proprie azioni. È il momento in cui Walter White e il suo doppelgänger giungono al punto di non ritorno. In 47 minuti la reazione chimica è sul punto di far saltare in aria tutte le precarie fondamenta su cui si basava l’impero del male di Heisenberg. La morte del cognato, la fine del rapporto con i restanti membri della sua famiglia, il rapimento di Jesse (con annessa rivelazione su Jane) e la perdita di tutti quei denari messi faticosamente da parte con il lavoro clandestino per conto di Gustavo Fring. Il conto arriva a tavola. Ed è salatissimo.

Il fu Re dei Re nel deserto del New Mexico

Qui Breaking Bad assume le definitive connotazioni tipiche della tragedia shakespeariana. Questo episodio si va a porre come climax distruttivo all’interno del lungo arco narrativo messo in scena. Solo che una volta arrivati all’apice, la caduta libera verso un punto più basso di quello di partenza dura poche scene. Sono queste le sequenze in cui il protagonista si fa carico di tutte le colpe momentaneamente celate dietro un velo di bugie. Walter White, protagonista moralmente retto con il quale il pubblico non può che simpatizzare inizialmente, deve pagare la sua ambivalenza di valori che ha inutilmente cercato di allontanare nascondendosi dietro la maschera di Heisenberg – o il cappello per meglio dire.

Nel fare ciò Ozymandias è brutale, al limite della violenza psicologica. È interessante notare, però, la prospettiva con cui ciò viene fatto. Così come nel sonetto ottocentesco il decadimento ci viene presentato attraverso un io poetico, che a sua volta era entrato in contatto con uno sconosciuto viaggiatore, allo stesso modo il declino di Heisenberg non ci viene mostrato tramite una diretta punizione fisica, ma attraverso le reazioni di tutti coloro che lo circondano.

Analizzando l’episodio ciò appare innegabile. Non è tanto la morte di Hank che conta, ma la reazione di Marie – cui non a caso la regia sceglie di soffermacisi attentamente. Non è la lite in casa che agita lo spettatore, ma i fotogrammi in cui Flynn copre con il braccio Skyler per difenderla dal mostro che, solo ora, si accorgono di avere davanti. Stiamo osservando, attraverso gli occhi dei personaggi secondari, le rovine di quello che una volta era il re dei re. La violenza in Breaking Bad non era certamente un elemento nuovo per lo spettatore, ma è il fatto che essa per la prima volta sconfini fuori dalla sfera criminale per raggiungere quella familiare a turbare.

Ozymandias è indubbiamente il capitolo meglio scritto di Breaking Bad. Quello che si fa fatica a rivedere, quello più carico d’emozioni, quello dove si tirano le fila e si regolano i conti. La regia appare cristallina come al solito – con diversi rimandi al sonetto di Shelley – la scrittura è precisa come in tutti i precedenti cinquantanove episodi e la recitazione all’altezza del lavoro tecnico. Siamo di fronte ad una delle ore – o quasi – più belle della storia delle televisione, una delle opere d’arte di questo ventunesimo secolo che continuerà a ergersi ancora per tanto tempo, contrariamente al transitorio regno di qualsivoglia sovrano terreno.

Facebook
Twitter