Nope, la recensione: in sella al metacinema contro il tramonto di Hollywood

NOPE: RECENSIONE NO SPOILER

Terrore, misto a risate, misto banalmente al piacere che solo il cinema di genere sa dare, soprattutto quando mescolato. Ma più di tutto grande stima per Jordan Peele, che pur con una (diversissima) carriera alle spalle, dimostra già al terzo lungometraggio una maturità di linguaggio, di intenti e di autodenuncia normalmente appannaggio di registi dalla carriera ventennale o trentennale. Vale a dire la maturità con cui si inizia a ragionare su se stessi e sul proprio ruolo nello star system, in questa nuova follia produttiva e distributiva hollywoodiana, si chiami streaming o computer grafica. Di questo, precisamente di questo, parla Nope: una cavalcata in sella al metacinema che però, rompendo il cliché, non procede incontro all’orizzonte. Piuttosto, contro il tramonto di Hollywood.

Per me si va nella città morente

Guai alla città sanguinaria, piena di menzogna e di violenza, che non cessa di depredare! Si ode rumore di fruste, frastuono di ruote, galoppo di cavalli, sobbalzare di carri. Abbondano i feriti, si ammucchiano i morti, sono infiniti i corpi, si inciampa nei cadaveri. Questo a causa delle tante fornicazioni dell’avvenente prostituta, dell’abile incantatrice, che vendeva le Nazioni con le sue fornicazioni e i popoli con i suoi incantesimi. “Eccomi a te – disse il Signore – io alzerò i lembi della tua veste fin sulla faccia e ti getterò addosso le immondizie, ti umilierò e ti esporrò allo scherno”.(Libro di Naum – Distruzione della Città di Ninive).

Nope cita ET
Nope cita ET

Si apre così il terzo lungometraggio del regista di Get Out e Us: con quel tono apocalittico che solo il Vecchio Testamento sa regalare. Ma con una differenza. Che se parliamo di Jordan Peele, la sua Sodoma e Gomorra, la sua avvenente prostituta, sarà Hollywood. E oltre a esporla allo scherno, lo farà sullo schermo in una delle operazioni di metacinema più mature – giacché ormai, quando il cinema parla di se stesso, il più delle volte lo fa come divertissment e raramente per mettere davvero in guardia da se stesso – degli ultimi anni. A far da protagonisti gli Haywood (immediata assonanza) che da generazioni gestiscono un maneggio e addestrano cavalli per i vicini studios cinematografici. Quindi per lavoro, a dire il vero, non addestrano cavalli: per lavoro, gli Haywood fanno Hollywood.

In un certo senso sono nel settore da sempre, da prima che il cinema nascesse perché, come ricordano con tono da venditori incalliti a quei pochi studios che ancora li ingaggiano preferendoli al green screen, sono i diretti discendenti del fantino che si prestò alla serie fotografica nota come The Horse in Motion. Per i meno avvezzi, una serie di istantanee di un cavallo al galoppo che, messe in movimento nel 1878 da Eadweard Muybridge, diedero vita a quello che viene tutt’oggi considerato uno dei primi esperimenti di cinematografia. L’antenato degli Haywood era lì, quando tutto nacque; i suoi discendenti sono ancora lì, un secolo e mezzo dopo, quando tutto sta per morire.

Nonostante questo vengono ancora guardati con sospetto dalle biancastre dive di Hollywood, soprattutto il primogenito (Daniel Kaluuya) che di nome, ahilui, fa OJ. Guardato male, perché nero e perché OJ. Ma non è di questo, non è del colore della pelle centrale invece nelle prime due pellicole, che ci parla Jordan Peele. Né dell’approccio antispecista con cui sceglierà, fra cavalli imbizzarriti e scimpanzé impazziti – immaginate una sitcom stile Il mio amico Charly, solo che siamo in un horror di Jordan Peele – di cadenzare la sua narrazione in capitoli. Ma allora, Nope, di cosa vuole parlarci? “Della materia di cui sono fatti i sogni” – cita da Shakespeare. O meglio, di un tipo molto specifico, il Sogno Americano: “Ma il sogno in cui alla fine arrivi in cima alla montagna, è quello da cui poi non ti risvegli più”. Quindi della materia di cui sono fatti gl’incubi, di cui è fatto un “miracolo cattivo”.

Il miracolo cattivo di Nope

L'UFO di Nope
L’UFO di Nope

Questo miracolo cattivo, in Nope, ci si mostra fin da subito. Fin dal trailer, a onor del vero, il che rende molto più semplice scriverne senza rischiare spoiler. Il mostro di Nope si presenta – non già è, perché la sua essenza ha a che fare con l’intera metafora di Peele – sotto forma di UFO, ma con una silhouette che si rifà allo sci-fi di genere Anni ’50, quello che Stanley Kubrick mise a tacere con 2001. Segno che Peele intende recuperare un mix di genres e di format televisivi ancora inespresso, spaziando da ET a 7 pistole per i MacGregor, al Pianeta delle Scimmie: horror, certo; fantascienza, l’avevamo capito; ma soprattutto western (quindi fantawestern?), questo ci mancava; persino commedia del grottesco e sitcom, perché anche il piccolo schermo assume un ruolo fondamentale. Non è un caso che la Residenza Haywood somigli a un incrocio fra quella casa nel bosco, dalle architetture hitchcockiane, e la casa nella prateria, stretta nella morsa del sogno californiano, ormai inaridito. È il grande cinema di genere americano che incontra il grande cinema punto. Perché Jordan Peele, prima di fare grande horror, fa grande cinema. Punto.

Segno anche che Peele è in grado di spaventare, semplicemente mostrando: mostrando cose che a mostrarle, non facevano paura dagli Anni ’50. E al contempo, sorridere, perché sfidiamo chiunque a scanzonare una delle scene più inquietanti di tutto un film, con tanto di jumpscare, aggiungendovi una grassa risata in sala semplicemente perché il protagonista ne va ripetendo: “Nope, Nope, Nope”. Questo perché nel frattempo, gli Haywood, da perfetti cercatori d’oro, si sono messi in testa di riprendere l’UFO, quantomeno fotografarlo. Inseguono il Sogno Americano per antonomasia: cercano la svolta, cercano la “Oprah Shot”. Quell’inquadratura impossibile che diventi prova definitiva dell’esistenza degli alieni e che se ci sono, sono in America, dove riprese del genere vengono vendute a centinaia di migliaia di dollari perché sì, negli Stati Uniti, persino le foto degli UFO sono merce di scambio.

Ma via via che il mostro di Nope prende forma, che Peele ne abbozza i (reali) contorni, quel mostro diventa altro e anche Nope diventa altro. Diventa chiarissima, cristallina metafora di “un animale territoriale che crede che questa sia casa sua”. Pronto a inghiottire tutto e tutti, a Hollywood. Quel mostro, ci metteremmo la firma, è metafora del nuovo sistema produttivo e distributivo: chiamatelo streaming, chiamatelo green screen, chiamatelo show business, chiamatelo semplicemente la traduzione etimologica del Blob del ’58. Un oggetto non identificato che inghiotte ogni altra cosa al suo passaggio, rendendola un ammasso informe. Decretando la fine di un’arte o quantomeno di un certo tipo: della non più nuova, Nuova Hollywood. Perché ai funerali del cinema, ad avvolgerne il cadavere saranno drappi green screen.

Per una New New Hollywood

Daniel Kaluuya e Keke Palmer
Daniel Kaluuya e Keke Palmer

Come si sconfigge allora, un mostro del genere? Come si domano, come si imbrigliano, questi mostri digitali dello streaming? Innanzitutto – Peele ce lo dice con una metafora equina – non guardandoli negli occhi o non guardandoli affatto, per quanto ne avremmo voglia, anche solo per dissacrarli. Togliergli l’attenzione – o dare loro la giusta attenzione, critica, in qualità di fenomeni evolutivi – è il primo passo per depauperarli. Secondo, non credere di poterli controllare, quantomeno giocando ad armi pari. È l’errore del grande Direttore della Fotografia che dice: “Faccio un film per loro per fare un film per me”. Fu proprio questo uno dei grandi punti di non ritorno: il riconoscimento e la collaborazione del cinema d’autore.

Ed è l’errore della televisione, qui rappresentata da Steven Yeun (The Walking Dead) in una delle sottotrame più spaventose di Nope. La televisione: la prima a sapere, la prima ad agire. Prima a credere di poter controllare lo streaming e la serialità compulsiva, perché in fondo ne era antenata diretta. Invece, la prima a perire: chi guarda più la televisione oggigiorno? I film, al contrario delle serie, possono ancora contare su un’esperienza di visione molto diversa: la sala, ultima testa di ponte. Quindi, di nuovo, non abbassarsi al livello, mettere una distanza fra noi e loro. Ma se proprio si deve riprenderlo questo UFO, il digitale è fuori questione. Le telecamere si spengono al suo passaggio, quindi bisogna tornare allo stadio di fabbrica: alle cineprese a manovella o ancora più indietro; alla pellicola IMAX su cui (non a caso) è girato lo stesso film di Peele. Combattere il mostro in CGI, a suon di un buon vecchio western.

Se insomma il cinema ha avuto inizio con un fantino nero, solamente un suo discendente, di nuovo in sella a un cavallo e con indosso una felpa “Ultra Panavision 70” – su cui ora solo Tarantino rimane a girare i suoi western in formato 70mm – può sperare di salvarlo. E spetterà a una seconda generazione, lei in sella a una moto come all’epoca d’oro degli stuntman, ormai esodati dalla tecnologia, raccogliere i pezzi in vista della ricostruzione. Lei è Keke Palmer, sorella su schermo di Kaluuya nonché vero gioiello attoriale di questo film. Lei a dircelo, invece, con una maglietta che recita “Haywood 2”: sorge una nuova alba con i suoi orizzonti da cavalcare. Una Nuova, Nuova Hollywood: donna, nera, fiera. Ma soprattutto memore della sua storia, innanzitutto, poi vediamo. Per questo, postilla a margine, il regista di Nope rifiuta i complimenti da fan dell’ultima ora, di chi esalta Jordan Peele dimenticando John Carpenter. Come a dire anche a voi, a voi spettatori senza memoria e senza storia, che il film lo trovate in sala dall’11 agosto: “Cosa potete capirne di Nope, se dite Yep a tutto?”.

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