Il più bel secolo della mia vita non è solo la storia di un viaggio, in quanto road movie, a livello narrativo. Lo è anche dal punto di vista produttivo. Tutto parte più di dieci anni fa con il cortometraggio di Rai Cinema Ce l’hai un minuto? diretto da Alessandro Bardani. Un dialogo intergenerazionale tra due personaggi, interpretati da Giorgio Colangeli e Francesco Montanari, basato su equivoci e indicazioni stradali. Da questo esperimento prende poi corpo Il più bel secolo della mia vita. Prima come spettacolo teatrale di successo, sempre con Colangeli e Montanari e Bardani in regia.
Poi come opera cinematografica che segna l’esordio come direttore di un lungometraggio dello stesso Bardani ma con Sergio Castellitto e Valerio Lundini a interpretare i protagonisti. Un percorso lungo e che ha attraversato, oltre che più linguaggi, un periodo storico complesso e un cambio di interpreti. E come vedremo nella nostra recensione de Il più bel secolo della mia vita, in arrivo in tutte le sale italiane il 7 settembre (scopri tutti i film da vedere a settembre), tanto il tempo quanto i cambiamenti sono stati utili al risultato finale.
La trama de Il più bel secolo della mia vita

In Italia è in vigore una legge che impedisce ai figli non riconosciuti di conoscere l’identità dei propri genitori fino al compimento del centesimo anno d’età. Questa è la premessa essenziale de Il più bel secolo della mia vita. Il film si apre con un flashback in bianco e nero. Un bambino trascina una croce per poi utilizzarla come un palo di una porta da calcio. Si tratta di Gustavo e vive in un orfanotrofio gestito da alcune suore e sta per essere punito per quel gesto blasfemo. Lo stacco successivo alla punizione ci porta ai giorni nostri.
Gustavo (Sergio Castellitto) è da poco divenuto centenario, vive in una casa di cura nel Nord Italia ed è tenuto sotto controllo, ancora una volta, da una suora. Entra in scena Giovanni (Valerio Lundini), volontario della FAeGN (Associazione Nazionale Figli Adottivi e Genitori Naturali) che proprio per portare una nuova luce alla sua battaglia decide di mettersi in contatto con l’anziano. L’obiettivo è quello di portare a una conferenza a Roma l’uomo e di fargli finalmente scoprire chi era sua madre. Gustavo e Giovanni iniziano così un viaggio attraverso l’Italia ricco di luoghi, ricordi e prospettive future.
Un road movie tra questioni legali, musica e ricordi

Dietro alla sceneggiatura (scritta dallo stesso Alessandro Bardani insieme a Luigi Di Capua dei The Pills, Leonardo Fasoli e Maddalena Ravagli) c’è chiaramente una base di verità, ovvero la legge 184 del 1983 poi modificata nel 2001. E nell’ultima decade si è a lungo disquisito sul diritto – a oggi precluso ai più – dei figli non riconosciuti di scoprire l’identità dei genitori. Eppure nel film non si può evitare di scorgere un certo tipo di attinenza con altre grandi questioni d’attualità, su tutti i temi della genitorialità (naturale e/o giuridica). Ma quello di Bardani non vuole essere cinema politico.
Piuttosto mira, esattamente come in Ce l’hai un minuto? da cui tutto è partito, a un dialogo intergenerazionale. E se nel corto il pretesto erano delle indicazioni stradali, in Il più bel secolo della mia vita diventa il viaggio. Un road movie in cui battere non solo le strade dell’Italia di oggi ma anche quelle dell’Italia dei ricordi di Gustavo, attraverso un uso interessante di flashback che richiamano echi della Dolce Vita. In questo percorso di vita siamo accompagnati dalle musiche di Brunori Sas e dalla regia di Bardani, molto asciutta e mai invasiva, perché a parlare devono essere i personaggi.
Il più bel secolo della mia vita: cinema di interpreti e personaggi

Il più bel secolo della mia vita è cinema di personaggi quindi. È nella loro interazione, fatta prima di contrapposizione e poi di un progressivo avvicinamento, che si crea la tensione emotiva e morale del film. Una viaggio appunto che diventa ricerca identitaria. Gustavo guarda al suo passato alla ricerca delle esperienze che lo hanno formato vista la non conoscenza delle proprie radici. Castellitto, aiutato da un trucco pesante ma mai posticcio, esplora la sfera emotiva di Gustavo con metodo e viene aiutato dalla regia di Bardani che si sofferma con insistenza sul suo volto.
L’attivismo di Giovanni, d’altra parte, mostra una propensione verso il futuro che va in contrapposizione allo sguardo verso i ricordi di Gustavo. La vicinanza e il punto d’incontro tra i due nasce nella ricerca identitaria che entrambi condividono. Valerio Lundini, qua nel ruolo più importante della sua carriera cinematografica fino ad ora, è perfetto attraverso la sua maschera fatta di nevrosi, non detto e insicurezze a portare in scena il personaggio. Una fotografia, a metà tra l’attivismo e lo smarrimento identitario, che seppur semplice rende alla perfezione i dilemmi di una generazione.
Il più bel secolo della mia vita arriva nelle sale italiane il 7 settembre.