Felicità, recensione: la prima cosa bella… è la Ramazzotti alla regia

Micaela Ramazzotti passa dall’altro lato della macchina. Esordio alla regia, vincitore a Venezia sezione Orizzonti Extra. Felicità, nelle sale dal 21 settembre, è un racconto fin troppo reale per definirlo “parte di un filone”, del filone commedia all’italiana, o di quello dei personaggi da lei messi in scena in passato.
Felicità, recensione: la prima cosa bella… è la Ramazzotti alla regia

Felicità è guardare un film, bellissimo, in un piccolo cinema di città, meno bello ma comunque affascinante, con la pellicola che si blocca, per due volte. Felicità è poter utilizzare quel tempo per scrivere, perchè è difficile staccare lo sguardo dallo schermo. E pensare che le prime cose, le prime volte, sono sempre qualcosa di acerbo, incompleto. Poi però ripensi a Sonia – il personaggio un po’ coatto che la Ramazzotti vestiva in Tutta la vita davanti (2008), alla madre persa di La prima cosa bella (2010), alla paziente euforica de La pazza gioia (2016). 

E pensi che tutti quei personaggi, invece, completano il cerchio. Creano un nuovo organismo nell’opera prima da regista di Micaela Ramazzotti. Felicità non è la parola adatta per descrivere Desire – con l’accento, specifica a inizio film – Desirè (Micaela Ramazzotti), parrucchiera sui set cinematografici. Desirè fissa lo specchio del camerino, flirta con ogni elemento del set, e loro, a loro volta, ne traggono profitto, sempre. Desirè confonde i polifosfati, quelli che si individuano nei detersivi, con i solfiti del vino rosso “un vino speciale, da paura, c’ha meno polifosfati”. Crede alle bugie del padre, malato “alla parte elettrica del cuore, c’ha l’intramenia”.

Non ne prende una neanche per sbaglio, eppure è costretta dalla famiglia a firmare solo “un proforma”, una finanziaria di quattro rate più interessi, con lo sguardo perso. “Stellina devi firma’, adesso, non ti distrarre…”. Costantemente confusa, persa. Però, quando entra in gioco il fratello, Claudio, lei attiva ogni senso per entrambi, ogni muscolo per salvare quel fratello silenzioso, con gli occhi azzurri, un ragazzo bellissimo che non sorride mai – “e fattela ‘na risata” gli urlano i parenti – affetto da ipomania, il disturbo dell’umore nel quale si alternano stati di felicità a stati di depressione profonda.

 “Desiré ma la famiglia? Cel’hai fori?”

Fori de brutto”. Non sono genitori, quelli di Desirè e Claudio, ma un mostro a due teste. Non puoi colpirlo neanche al centro, non ha spina dorsale. Non cel’ha il padre (Max Tortora), uomo di spettacolo fallito dalle giacche piene di strass, rappresentazione dell’Italia anni ‘80, convinta di trovarsi in una fase di benessere infallibile, senza fine. È il padre di Nellie Leroy di Babylon: vive di fama riflessa, quella della figlia. E poi si sente male nel momento decisivo. Un padre prigioniero delle sue convinzioni mentali, convinto che i figli siano “due deficienti”. 

Crede che la terapista sia una macchina mangiasoldi, non comprende perchè i lacci non siano permessi in reparto psichiatria, crede alla favoletta dei 35 euro giornalieri ai migranti con i soldi dei contribuenti, che la depressione è una roba di ‘sta generazione, che non va a lavorare. La sua segreteria telefonica, emblema del personaggio: “Se hai chiamato Max sei sulla strada giusta per il divertimento”. “Ma guarda ‘sto scemo”. Il suo personaggio, però, non è monodimensionale, è a sua volta vittima e carnefice. Ultimo della catena sociale sul set, a sua volta sfoga la frustrazione sulla famiglia. 

Bruno è il compagno di Desirè, un professore più anziano di lei che la corregge davanti agli ospiti, intimandole di abbassare la voce, chiassosa, sboccata. Si assicura sempre di non metterla incinta. Grazie al personaggio di Bruno il film riesce ad introdure un’ulteriore sottotrama: esiste una famiglia famiglia – in cui si cresce – e una famiglia scelta? Ma soprattutto, in dinamiche così disfunzionali, quale delle due deve avere la priorità? Se da una parte è facile parlare di mediazione, dall’altra, bisogna comprendere che i fratelli protagonisti della storia sentono di non avere mai tempo per nessuno, vivono, diremmo noi oggi, “generazione che non va a lavorare”, in survival mode

Felicità è tutto uno stornello

Una scena da Felicità
Una scena da Felicità

Dev’essere l’alba quando la tua voce
Aricomincia e me rimette in croce
‘Alzati caro, guarda che giornata
Facciamoci una bella passeggiata’
Facciamose ‘na che? Ma va a far ‘n culo
A me lasciame perde’ qui da solo
Da quanno t’ho sposata nun c’è inverno
Che nun me fai ‘ncazzar cor Padreterno

La voce di lei è sempre rotta, quella di lui è sempre coperta. In compenso, quelle del resto della famiglia sono assordanti. I loro dialoghi, quelli della mamma e del padre, così leggeri e disinteressati da ricordare degli stornelli popolari, monologhi in canzone trasformati in sceneggiatura. Due parti che non si incontreranno mai: una sta male, l’altra pensa al cibo e alle passeggiate. 

Ma non vieni a cena? ho fatto pure er baccalà”; “Aho’ sempre a magnà, te e il baccalà”; “Avevo fatto pure i fagiolini, ci mancava solo questa”; “Che botta soré. Che fine che ho fatto.” Afferma dall’altro lato del telefono. E a noi, sarà forse per la notizia degli ultimi giorni, ma viene in mente, durante il film, la faticosa Vacanza del fine settimana di Califano. Quella con una moglie che proprio non vuole capire.

Un tempo filmico scandito in mesi. Per Claudio, però, ne esistono solo due: uno prima e uno dopo la partenza della sorella. Quello che succede nel mezzo non esiste, il tempo che passano insieme, seduti, a parlare di bruciature sul tettuccio della macchina, a parlare di niente, è un tempo dilatato, nel quale la stanza non ha pareti, smussata di ogni angolo, di ogni intruso. Due anime violentate, sbagliate, che neanche in due riescono a farne una integra. Bruno cerca di colmare un vuoto simile facendo trovare qualche cena pronta a Desirè. Il vuoto che lascia la prima cosa bella.

Due matti e 100 cancelli

Micaela Ramazzotti alla regia
Micaela Ramazzotti alla regia

In un film in cui quel dolore diventa l’unico spazio comodo per i protagonisti, diretti in modo così intimo, a un certo punto viene da chiedersi: come si va avanti? Si rimane in quel limbo? Cosa succede a due personaggi, matti, che arrivano al novantanovesimo cancello, come nella battuta? “Due pazzi decidono di evadere dal manicomio, ma per essere liberi devono scavalcare ben 100 cancelli. Iniziano a scavalcarli, uno dopo l’altro… Al decimo cancello uno chiede all’altro: ‘Sei stanco?’ e l’altro ‘No!’.  Dopo 40 cancelli: ‘Sei stanco?’ e l’altro ‘No’. Dopo 60 cancelli: ‘Sei stanco?’ e l’altro ‘No. Al novantanovesimo:  ‘Sei stanco?’ Sì, non ce la faccio più’-  ‘Hai ragione, torniamo indietro.’” 

Due embrioni li dividi una volta, alla nascita. Se uno si ferma al novantanovesimo cancello e l’altro va avanti, uno dei due muore, illuso di aver spezzato un rapporto a tratti nocivo, impegnativo, che ne risucchiava tutte le energie. Invece l’altro rimane con il braccio appeso, quasi esangue, insoddisfatto di non aver completato il proprio salasso. Felicità, un concetto sempre molto soggettivo. 

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