Michael Moore è un documentarista che ha sempre trattato temi delicati per il panorama americano, alcuni esempi sono “Bowling a Columbine” (2003) e “Fahrenheit 9/11” (2004). Col primo ha ricevuto un premio Oscar e tratta il tema del porto d’armi, grazie al secondo ha vinto la Palma d’Oro al Festival di Cannes e racconta gli avvenimenti successivi alla tragedia dell’11 Settembre.
L’ultimo documentario da lui realizzato si intitola “Fahrenheit 11/9”, come si può notare, riprende il titolo del documentario precedentemente realizzato focalizzandosi però su una data diversa: il 9 Novembre 2016, giorno dell’elezione di Donald Trump come 45 esimo Presidente degli Stati Uniti. Il documentario è stato inaugurato al Festival di Toronto 2018, mentre in Italia è arrivato per pochi giorni (troppo pochi, a mio avviso) in occasione della Festa del Cinema di Roma.
Analizzando la locandina e il titolo è già possibile dedurre il principale tema del documentario: come è stato possibile arrivare all’elezione di Donald Trump, quali sono state le conseguenze, chi l’ha permesso. Tuttavia, Moore punta il dito un po’ contro tutti, anche contro il partito Democratico (nonostante ne sia un sostenitore). Rimprovera Hillary Clinton e Barack Obama per alcune loro scelte politiche e si concentra su alcune situazioni critiche attuali.
Trama:
Il documentario inizia con un focus sul periodo precedente le elezioni, quando nessuno, nemmeno i grandi network, si aspettava che Donald Trump vincesse (l’unico a prevederlo è stato lo stesso Moore). Viene mostrata la festa prima del responso e colpisce particolarmente quando, dopo aver annunciato la sconfitta della Clinton, mostra i volti dei suoi sostenitori in lacrime e di sottofondo risuona la voce di Luciano Pavarotti mentre canta “Vesti la giubba” (Ridi, pagliaccio). Poi, la fatidica domanda annunciata nel trailer, mentre inquadra il volto di Trump proiettato sull’Empire State Building: “How the f*** did we get here?”.
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La parte del documentario dedicata a Donald Trump è quella più consistente e sicuramente non lascia alludere il disprezzo che prova per quest’uomo (sulla locandina effettivamente l’ha descritto come “Tiranno. Razzista. Bugiardo.”). Le immagini del documentario iniziano a farsi più confusionali e veloci, quasi alla rinfusa. Parla di argomenti già trattati esaustivamente dai media (per esempio, l’atteggiamento razzista durante i comizi) e fa anche allusioni, forse un po’ iperboliche, che sfociano nel parere personale. Un esempio può essere il fatto che si sofferma molto sulla relazione ambigua tra Donald e la figlia Ivanka o anche il fatto che lo paragoni a Hitler.
È soprattutto in quest’ultimo paragone che è possibile cogliere la satira di Moore, capace di trattare argomenti provocatori in un modo tale da suscitare l’ilarità (anche se forse è più un riso amaro). Contrappone immagini del Führer a quelle del Presidente degli Stati Uniti e doppia addirittura il video di un comizio nazista con un discorso di Trump. Una tra le conseguenze di questo paragone è che si trasforma anche in un attacco ai media, che all’epoca Goebbels chiamava “Lügenpresse”, la stampa bugiarda, e in particolare fa riferimento a una fake news del New York Times su Bernie Sanders.
Moore mostra la corruzione dilagante in America, la continua perdita di potere da parte del popolo che trasforma la democrazia in una mera illusione. L’esempio più riuscito è senz’altro la parte dedicata a Flint (Michigan), nonché luogo d’origine del regista. Ciò che viene raccontato in merito è probabilmente sconosciuto a buona parte degli italiani perché non è una notizia che ha avuto interesse mediatico in Italia. Tuttavia, vedere cos’è successo fa accapponare la pelle.
Attraverso un documentario nel documentario, Moore parla di Flint, città localizzata vicino a uno dei bacini d’acqua dolce più consistenti a livello mondiale e la città, giustamente, ne ha sempre usufruito, fino a che Rick Snyder (Governatore del Michigan) decise di utilizzare il fiume al posto del lago per approvvigionare la città. Il problema sta nel fatto che il fiume è altamente inquinato, lo si può visibilmente notare, e inoltre è stato anche accertato da studi scientifici.
La conseguenza di questo atto, è stato l’avvelenamento della popolazione che ha ingerito il piombo, metallo pesante che non viene espulso dal corpo e causa problemi permanenti come mutazioni genetiche ereditarie. Nonostante fosse risultato dalle analisi del sangue degli abitanti che il livello di piombo fosse decisamente oltre la norma, Snyder decise di insabbiare il problema, fingere che i livelli fossero accettabili e tutt’ora non è ancora stato dichiarato colpevole. È in questo frangente che accusa anche Barack Obama per non aver gestito la situazione, bensì per aver causato un ulteriore aumento di sfiducia politica nella popolazione.
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Non si può di certo definire questo documentario come imparziale, però si può premiare Moore per aver detto le cose come stanno. Non ha tergiversato in discorsi inutili ma ha mostrato la situazione e tratto le sue conclusioni. Il sentimento che ne consegue, da parte degli spettatori, è tutt’altro che positivo, anche se mostra qualche barlume di speranza all’interno della narrazione.
Moore, infatti, nonostante prevalga una visione pessimista all’interno del documentario, ha mostrato che c’è ancora qualcosa di positivo per cui valga la pena lottare. Per esempio, dimostra che il detto “l’unione fa la forza” non è un semplice modo di dire, attraverso lo sciopero effettuato dagli insegnanti in West Virginia per ottenere un aumento del 5% dei salari e il movimento giovanile MarchForOurLives per un ambiente scolastico più sicuro.
Conclusioni :
In conclusione, ci si aspettava, senza ombra di dubbio, che Moore avrebbe creato un documentario provocatorio, tuttavia ciò che colpisce è la tristezza e il senso di impotenza che genera nello spettatore. Lo provoca attraverso l’enumerazione dei casi di corruzione e delle prove che la democrazia ormai sia solamente illusoria, mostra come l’American Dream sia un sogno utopico ormai morto più che un ideale da perseguire.
Il popolo ha perso ogni forma di potere contro i grandi e i potenti, il voto non è più un modo per far sentire la propria voce. Sembra che ciò che serva sia una “wake-up-call”, un’epifania che ci faccia svegliare dal torpore della passività, qualcosa che ci sproni ad unirci, non a dividerci ulteriormente. Perché ci sono problemi che non possono essere ignorati, indipendentemente dal partito politico, e dal paese in cui si vive.
Per chiudere con le parole di Moore: “We don’t need hope. We need action.”. (“Non ci serve speranza. Abbiamo bisogno di agire.”)
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