El Conde, recensione: il Dracula Pinochet è l’erba cattiva di Larraín

El Conde è finalmente arrivato su Netflix. Dopo i giudizi altalenanti (ma il premio vinto per la migliore sceneggiatura) al Festival del Cinema di Venezia, il Pinochet-Dracula di Larraín è a disposizione si tutti. Lo abbiamo visto e recensito.
Jaime Vadell è Augusto Pinochet nel film El Conde

Premiato per la “miglior sceneggiatura” all’ottantesimo Festival del Cinema di Venezia, El Conde ha fortemente polarizzato i giudizi dei critici al Lido. Diretto dal regista cileno Pablo Larraín (Jackie, Spencer), la pellicola è sbarcata su Netflix.

Il film, scritto dallo stesso regista in collaborazione con Guillermo Calderon, immagina il dittatore cileno Augusto Pinochet come un vampiro ultracentenario che ha superato i secoli con uno scopo ben preciso: far crollare tutte le rivoluzioni “rosse”. Lo abbiamo visto, e ne abbiamo scritto la recensione. Eccola.

El Conde, la trama: Pinochet decano dei reazionari

Augusto Pinochet/Jaime Vadell in El Conde
Augusto Pinochet/Jaime Vadell in El Conde.

Rivoluzione francese. Il giovane vampiro Auguste Pinoche, sostenitore della monarchia, tradisce il suo ideale e lascia che i reali vengano uccisi per leccarne poi il sangue dalla ghigliottina. L’evento lo fa però rinsavire: da quel momento non avrà altro Dio al di fuori della controrivoluzione. E così sarà: i secoli passano, ma Auguste rimane saldo nel suo scopo. Ma la sua ambizione è troppa per rimanere un soldato reazionario per tutta la sua infinita vita. Così va in Cile dove, l’11 settembre 1973, Auguste Pinoche, diventato oramai Augusto Pinochet, attraverso un colpo di stato, fa cadere il governo di Salvador Allende e spinge al suicidio il rivale, diventando dominatore assoluto dello stato sudamericano, che usa come suo personale potentato.

Bienvenidos a casa Pinochet!

Anche la chiesa cattolica non è risparmiata dalla satira di Larraín.
Anche la chiesa cattolica non è risparmiata dalla satira di Larraín.

Alcuni decenni dopo, inscenata la sua dipartita (grazie alla mancata “assunzione” di sangue”) per le troppe critiche sul suo operato, “El Conde” Pinochet (Jaime Vadell) si è ritirato a vita privata. Circondato da meschini personaggi (l’avida moglie, l’apparentemente fedele maggiordomo, i figli affezionati al suo denaro), il “povero” Auguste è sempre più schiacciato dalla delusione per l’opinione che il mondo ha di lui, ed è deciso a porre fine alla sua vita di vampiro. Ma un arrivo inaspettato nella dimora del Conte, cambia le carte in tavola.

Ingaggiata dai figli dello stesso Pinochet (intenzionati ad ottenere finalmente l’eredità del padre immortale) allo scopo di esorcizzare il dittatore, entra nella dimora Pinochet la giovane suora Carmencita (Paula Luchsinger). Nella casa di famiglia si scatena così il caos: Pinochet si infatua della suora, le cui intenzioni reali sono più confuse che mai; la tresca tra il maggiordomo (Alfredo Castro) e la moglie (Gloria Münchmeyer) del dittatore viene alla luce; le intenzioni dei figli si esplicitano e si mescolano al caos della situazione. Per risolvere la confusione e “tagliare i rami secchi” della famiglia Pinochet non può che intervenire la mamma di Augusto, nientemeno che Margaret Thatcher, anch’ella un vampiro.

Pinochet è ridicolo tra satira e farsa

Pablo Larraín, premiato per la miglior sceneggiatura al Festival del Cinema di Venezia 2023
Pablo Larraín, premiato per la miglior sceneggiatura al Festival del Cinema di Venezia 2023.
Mi indigna l’ingiustizia.

Il tentativo di Pablo Larraín è ammirevole. Messe da parte le grandi figure femminili, centrali nei suoi ultimi film (e nel prossimo, qui il nostro articolo), il regista cileno prende una delle figure più oscure del suo paese, Augusto Pinochet, dittatore del Cile dal 1973 al 1990, e la ridicolizza. Prende le sue caratteristiche più note (l’ideale reazionario e fascista, il suo spirito sanguinario, la folle ambizione, il suo amore per la plata, il denaro) e li mette nel calderone della satira.

Larraín non risparmia nessuno. Trasforma casa Pinochet in una metafora del Cile dittatoriale: corruzione, tradimenti (la moglie, una specie di Evita Peron al contrario, vera ideatrice del colpo di stato del 1973, tradisce il dittatore con il bieco maggiordomo Fëdor, i figli cercano di eliminare il padre per ottenere l’eredità), violenza e ambizione la fanno da padroni. Anche la suora, apparentemente il personaggio puro della storia, è immersa nel peccato e alla fine viene dipinta come una esaltata Giovanna d’Arco (la somiglianza fisica con quella di Dryer è impressionante, non certo un caso) corrotta dal vampiro e passata attraverso il filtro della satira. Neanche il cattolicesimo è pertanto esente da una certa complicità.

L’introduzione, con la narrazione di una Margareth Thatcher ammirata e di parte, è ironica ed è un ottimo inizio: l’elenco delle “imprese” di Pinochet nel corso dei secoli, dalla rivoluzione francese al colpo di stato cileno, passando per il modus operandi del vampiro per ottenere il sangue delle sue vittime, è esilarante. Tuttavia, in corso d’opera, l’efficacia della satira di Larraín perde in efficacia sotto vari aspetti.

El Conde, un po’ troppa farsa

Una scena di El Conde
Una scena di El Conde.

Il rischio era concreto, e si materializza in effetti in corso d’opera. Se la premessa e l’idea sono ottime, alcuni passaggi perdono la loro forza satirica. La trama diventa un po’ confusa, con alcune scene che si ripetono e alcune situazioni che non sono efficaci come dovrebbero. Non tutte le battute sono esilaranti allo stesso modo e, in alcuni casi, sembrano forzate.

Ma la pecca maggiore è probabilmente la caduta in farsa di alcuni passaggi del film di Larraín. Alcune scene di violenza sono seriose, altre sono ridicole, quasi tarantiniane. Ma è difficile renderle efficaci se non si è Quentin Tarantino. L’apparizione del deus ex-machina Margaret Thatcher è simpatica ma un po’ legnosa (anche se è coerente con quello che è, secondo noi, il significato del film, ne parleremo nel prossimo paragrafo), e rende ancora più confuso il terzo atto, già abbastanza delirante di per sé. Il film, nella sua totalità, non è da buttare, ma poteva essere sviluppato con maggiore efficacia. Peccato.

Il fascismo è (ahinoi!) immortale in El Conde

Pinochet è un vampiro in El Conde
Pinochet è un vampiro in El Conde.
Sì, sono stato davvero una vittima.

Detto di pregi e difetti di El Conde, quello che è davvero cruciale nell’opera satirica di Pablo Larraín è il suo significato, più drammatico, a nostro avviso, di quanto non mostri l’ironia del film. La scelta di trasformare i sanguinari protagonisti, simboli della violenza reazionaria e fascista, in immortali vampiri non è casuale.

Sono il simbolo che un certo ideale contrario ai cambiamenti, un certo fascismo di fondo, è destinato a non morire mai. Proprio come i vampiri. Può assopirsi, può fingere una dipartita, ma alla fine ci sarà sempre una Margaret Thatcher pronta a riportarlo al potere e a ricominciare tutto da capo. Non è certo una visione ottimistica, quella di Larraín, ma ci mette in guardia. La banalità (del Male, una volta ancora) e la stupidità con cui i personaggi, interrogati da Carmencita, parlano degli errori e dei crimini compiuti da Pinochet, è disarmante e fa riflettere. Perché il vampiro sia eliminato, serve ben altro che un po’ di aglio e un paletto di frassino.

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