E noi come stronzi rimanemmo a guardare: la distopia di Pif, già avverata

RECENSIONE NO SPOILER

Oggi esce in sala E noi come stronzi rimanemmo a guardare, terza opera cinematografica dell’autore poliedrico noto come Pif – pseudonimo di Piefrancesco Diliberto, già regista de La mafia uccide solo d’estate – presentata alla Festa del Cinema di Roma con il regista e gli attori in conferenza stampa, una delle più esilaranti di tutta la dieci giorni. Dietro il titolo apparentemente irriverente ma drammaticamente azzeccato, si nasconde un attualissimo racconto sul domani che è già oggi, una distopia sotto mentite spoglie.

Film all’apparenza high budget – almeno per gli standard nostrani – non privo, più di che di errori veri e propri, di superficialità narrative e cinematografiche sparse qua e là, potrebbe non dire molto, in termini di capacità immaginifica, ai vari cultori abituati a titoli come Black Mirror. Ma riconferma Pif come un grande comunicatore, capace di enorme trasparenza nei concetti, di passare da un linguaggio a un altro e di usare il cinema, alla bisogna, come uno dei tanti mezzi di espressione possibili. Ma fra tutti, il più funzionale per il suo essere nazional-popolare.

Non chiamatelo plagio

Valeria Solarino e Fabio De Luigi
Valeria Solarino e Fabio De Luigi

In un futuro molto prossimo – praticamente, l’altro ieri – la vita delle persone è decisa da una serie di algoritmi e innovazioni tecnologiche. Contro ogni spreco di tempo e risorse, dal lavoro agli affetti, questi nuovi ritrovati promettono di agevolare la quotidianità di ciascuno, rivelandosi invece delle nuove fonti di schiavismo, sfruttamento e prigionia. C’è n’è per tutti i gusti: l’app per la compatibilità amorosa, come in Hang the DJ; l’indice di gradimento che decide dell’erogazione di prestiti, come in Caduta libera. Per chi non ne avesse memoria, sono titoli di episodi di Black Mirror.

Ma c’è di più. Al modico prezzo di 199€ a settimana, ci si può innamorare di un ologramma su modello della Joy (Ana De Armas) di Blade Runner 2049 o della voce di Scarlett Johansson in Her. Proprio su questo, l’attrice Ileana Pastorelli, presente in sala, commenta col suo fare romanaccio la stessa cosa che si disse per Joaquin Phoenix nel film di Spike Jonze: “S’è innamorato de Siri“. A guida di tutto c’è un amichevole CEO a immagine e somiglianza di Steve Jobs, coi suoi motivational speeches alla: “Stay foolish, stay hungry“. Se stiamo parlando di Black Mirror insomma, E noi come stronzi rimanemmo a guardare somiglia a Black Museum, finale di stagione della quarta: un gigantesco recap di piccole, distopiche innovazioni già viste, ma non per questo incapaci di dirci qualcosa di nuovo.

E noi, come stronzi, cosa?

Fabio De Luigi e Ilenia Pastorelli
Fabio De Luigi e Ilenia Pastorelli

Il protagonista, Fabio De Luigi, ha sviluppato per la sua azienda uno di questi algoritmi, capace di individuare – e licenziare – le risorse poco produttive o non più necessarie: ovvero, al colmo dell’ironia, anche lui, rinnegato dalla sua stessa creatura. In altre parole, forse troppo da addetti ai lavori, si scoprirà vittima di quel dispositivo della tecnica che il filosofo Martin Heidegger, dal canto suo, aveva così ben delineato a metà del secolo scorso: un sistema nel quale l’uomo, convinto di essere al comando di un apparato tecnologico che gli è strumento, diventa in realtà l’elemento sostituibile all’interno di quel sistema, capace da un certo punto in poi di progredire senza il suo inventore.

Sarà quindi costretto – visto l’ennesimo algoritmo, che gli impedisce qualunque altro tipo di reinserimento lavorativo a causa dell’età avanzata – a diventare un runner per Fuuber, una via di mezzo fra i nostri Uber e Glovo, Deliveroo, Just Eat. Interromperà la spirale discendente di sfruttamento, necessario per far fronte ai debiti, solo nel momento dell’incontro, sicuro colpo di fulmine, con Ilenia Pastorelli, già bravissima in Lo chiamavano Jeeg Robot e che qui interpreta appunto uno degli ologrammi dell’app.

Siamo ovviamente in presenza di una commedia che, attraverso la leggerezza del genere, vuole indorarci l’alienazione e i pericoli del mondo moderno. In sala la gente ride, ride ancora, ride a non finire. Ride perché crede di star guardando una commedia, una boutade: peccato non ci sia niente da ridere. Può permettersi di farlo perché non conosce la situazione reale del nuovo sotto-proletariato urbano, di questi leali schiavi del domani che consegnano pasti caldi sulle nostre tavole imbandite. E lo fanno spaccando esattamente i 17 minuti 4 secondi 10 millesimi di consegna, per il modico guadagno di 2€ 30cent più una valuta così frazionata da non avere neanche moneta. Ma loro, in sala, niente: come stronzi continuarono a riderne.

Per una fantascienza didascalica

Pif alla Festa di Roma
Pif alla Festa di Roma

E noi come stronzi rimanemmo a guardare è ben lontano dall’essere un film perfetto: nel momento in cui lo si valuti puramente dal lato della resa cinematografica, il responso non potrà essere così positivo. Vuoi la reiterazione di situazioni già viste e riviste, vuoi le fratture – più che errori veri e propri – d’ambientazione, che passano senza soluzioni di continuità da una Milano asettica, lascito dei vari expo e padiglioni avviati al degrado, a una Roma svuotata e monumentale per le scene più romantiche. Un’operazione (volutamente) priva di qualunque realismo, tesa forse a mostrare il futuro delle periferie ipergentrificate, ma che potrebbe far storcere il naso assieme a un paio d’altre.

Più di tutto l’approccio terribilmente didascalico del linguaggio, che ci spiattella il messaggio senza girarci troppo attorno. Come quando il villain di turno – quel rispettabilissimo CEO – rompe la quarta parete in un finale che non lascia speranza e spiega come i responsabili fossimo noi, che come stronzi rimanemmo a guardare mentre le multinazionali, bussando alla porta educatamente e senza insistere, si prendevano i nostri dati e i nostri soldi, la nostra vita e il nostro futuro.

Con questo film, Pif si ripropone di fare ciò per cui la fantascienza era nata e che non riesce a essere più da molto tempo, o almeno non prima di aver abbandonato il suo linguaggio primigenio, simbolista: un genere politico, impegnato, di denuncia dei futuri possibili e di quelli deprecabili. Forse quella sala – e virtualmente, per estensione, il pubblico – ha bisogno di quel didascalismo, ahinoi: almeno ora, nessuno ride più.

Questa e molte altre recensioni su tutti i prossimi film della Festa del Cinema di Roma sempre su CiakClub.it

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