Una panoramica sui film d’animazione più interessanti degli ultimi anni: dallo Studio Ghibli, alla Pixar, alle tendenze europee.
Quando nel 1995 “Toy Story” uscì nelle sale, il mondo del cinema subì uno scossone. Tutte le speculazioni e i miraggi sulla nuova tecnologia che circolavano tra professori, scienziati e artisti erano infine confluite in un film, un prodotto generato completamente tramite sequenze numeriche. Il digitale realizzava l’aspirazione di tagliare i ponti con il reale ed emancipava l’occhio dell’uomo da qualsiasi referente che non fosse elaborato dalla sua mente. Come sempre i grandi mutamenti sono accompagnati da una vertigine di inquietudine e, in questo caso, la preda designata di questo dinamismo tecnologico era un’altra pratica artistica che faceva dell’immaginazione pura il proprio cavallo di battaglia: l’animazione tradizionale. Dopo più di vent’anni dall’introduzione della CGI (computer-generated imagery), possiamo affermare che i disegni vecchia maniera, matita e pennelli alla mano, sono sopravvissuti e vivono nella contemporaneità il periodo di maggiore varietà compositiva.
Senza dubbio l’immagine digitale ha aperto all’animazione un mercato precedentemente inaccessibile: “Frozen” è il maggior incasso della storia animata e anche le altre posizioni con più di un miliardo di guadagno abbracciano la computer animation, anche se sarebbe riduttivo considerarlo come l’unico ingrediente garante del successo. Da anni la Pixar fonda il proprio lavoro sulla creatività e su una salda costruzione narrativa, generando film come “Inside Out“, “WALL-E“, “Up” che si qualificano come opere di indubbio valore, non solo nel campo dell’animazione. Tuttavia la grafica 3D è provvista di un fascino capace di far breccia nel grande pubblico, tanto che già dal 2005 la reliquiaria più illustre dell’animazione tradizionale, la Disney, si è convertita alle nuove tecniche. Lungi dall’essere un fenomeno dualistico, nel quale si scontrano scuole portatrici di pratiche opposte, l’avvento del digitale ha provocato una serie di produzioni miste che gestiscono i livelli di CGI e disegno a mano in maniera sempre differente. Il risultato è una parcellizzazione delle pratiche che conduce ad una convivenza di toni e canoni estetici eterogenei, non solo tra i consueti poli produttivi (Europa, Asia, America), ma anche all’interno di una stessa dimensione nazionale.

Il Giappone, in questo senso, è un terreno molto prolifico sul piano dell’intreccio di stili ed ispirazioni. Lo Studio Ghibli è l’emblema di una integrazione sapiente tra tecniche digitali e disegni a mano, che permette di ottimizzare il lavoro senza compromettere la pasta fiabesca che solo la tradizione può restituire; fin dai tempi di “Principessa Mononoke” (1997), infatti, il lavoro sulla celluloide era stato affiancato alla scannerizzazione dei bozzetti originali, attraverso dei software come Toonz. Il culmine artistico di questa sintesi è stato raggiunto con “Quando c’era Marnie” (ultimo film dello Studio, per ora), che ha impiegato la colorazione digitale, i movimenti di macchina e i vari effetti speciali con disinvoltura e attenzione verso il passato. Nonostante lo Studio Ghibli si sia dimostrato al passo con i temi, negli ultimi anni sta vivendo una crisi di incassi che minaccia il suo percorso: solamente “Si alza il vento” di Miyazaki ha ottenuto un riscontro quasi soddisfacente al botteghino. L’eredità del più famoso studio nipponico, però, non è di certo rimasta inascoltata e le prime contaminazioni già si riflettono nella nascita di nuovi centri di produzione come lo Studio Ponoc, all’interno del quale sono approdati diversi artisti e tecnici provenienti dal Ghibli. Hiromasa Yonebayashi (regista di “Arrietty“) ha realizzato quest’anno la prima opera del neonato Ponoc, “Mary and the Witch’s Flower” (entrata nella selezione di questa edizione degli Oscar), che aspira ad instaurare uno stile memore degli antichi toni di “Kiki- Consegne a domicilio” e al contempo lanciato verso il futuro.
Un regista che invece ha adottato una grafica sprezzante ed estremamente iper-realistica è Makoto Shinkai, che l’anno scorso ha registrato cifre sorprendenti, oltreché un consenso generale di critica e pubblico. Shinkai, formatosi come un fan accanito dei lavori Made in Miyazaki, ha sostituito al tratto dolce e sinuoso un’estetica quasi da videogioco, gonfia lens flare e luci abbaglianti. “Your Name” (al quale è mancato solamente il riconoscimento dell’Oscar) utilizza una cifra visiva evocativa, anche se diametralmente opposta al lavoro dello Studio Ghibli. Se quest’ultimo puntava su una strategia paziente, che insinuava nello spettatore un’emozione quasi sussurrata, l’animatore emergente costruisce un’immagine d’impatto, in grado di impressionare in pochi minuti.

Sempre in Giappone continua a svilupparsi un altro cinema che si barcamena tra questi due poli espressivi. Mamoru Hosoda è uno degli esponenti più autorevoli di quest’animazione di mezzo, affermato ormai a livello internazionale e nel circuito dei festival. “Wolf Children“, prodotto dalla Madhouse (di “Perfect Blue” e “Paprika“), e “The Boy and the Beast” (presentato a Roma e candidato agli Oscar) mettono in scena un animismo ambizioso che strizza l’occhio anche alla tradizione romanzesca occidentale e si configura, dunque, come un prodotto accessibile a qualunque tipo di spettatore.
La volontà di esportare le usanze e i temi orientali è chiarificata dall’operazione dello Studio Ghibli che nel 2016 ha collaborato con delle società europee per la produzione di uno dei film più interessanti degli ultimi anni, “La Tartaruga Rossa” di Michaël Dudok de Wit. Il racconto, simbolico ma non didascalico, articola una riflessione priva di dialoghi sul rapporto tra uomo e natura, impiegando uno stile visivo semplice e ipnotico; certamente tra i più belli ultimamente rappresentati, sia per i fondali che per le creature del mare illustrati con acquerello e carboncino. L’anno scorso l’Oscar al miglior film d’animazione gli è stato soffiato da “Zootropolis” della Disney, una delle prove più innovative in computer grafica dell’impero di Topolino che amalgama generi differenti come la commedia e il poliziesco.

Non è necessario allontanarsi molto per scovare un altro dei più promettenti animatori europei, parlo di Tomm Moore, regista irlandese assiduamente presente sul palcoscenico dell’Academy. Moore si è fatto notare con “The Secret of Kells” (2009) e poi con “La Canzone del Mare” (2014), ed ha mostrato fin da subito un’ispirazione fortemente legata al folklore norreno e agli elementi naturali. Queste due opere sono racconti di formazione che seguono i canoni della crescita personale dei personaggi tramite una serie di prove. Se la struttura, dunque, è rigidamente classica, il disegno simbolico e gli ornamenti pregiati si assumono l’onere di riempire il fotogramma e gli spazi che i dogmi narrativi lasciano volutamente vuoti. Tra creature mitologiche e toni fiabeschi il regista costruisce dei quadri dinamici dove ogni angolo dell’inquadratura è letteralmente colmato da ghirigori e spirali che sembrano uscite da un’opera di Klimt. L’ultimo lavoro di Moore, “Wolfwalkers” è una storia di lupi e bambine, e il suo debutto sul grande schermo è previsto per il 2018, accompagnato da tante aspettative.

Considerando questi esempi e tantissimi altri come “Le Stagioni di Louise“, “Anomalisa“, “Inside out“, appare evidente come il cinema d’animazione contemporaneo possa vantare un livello stilistico, tematico e narrativo estremamente vario e brillante. Questo genere di film è ormai un prodotto flessibile, adatto a spettatori di qualsiasi età e nazione di provenienza. La speranza è che l’animazione tradizionale continui il processo di infiltrazione all’interno dei grandi circuiti di premiazione, per conquistare una fetta di pubblico sempre più ampia e che gli studi made in USA mantengano la qualità emotiva e concettuale a cui, in particolare la Pixar, ci ha abituato.
Per quest’anno non ci resta che assistere allo scontro per il Premio Oscar, dove concorreranno titoli come “A Silent Voice” e “In questo angolo di mondo” (dal Giappone), “Coco” e “Cars 3” (della Pixar), “Loving Vincent” (dal Regno Unito/Polonia) e l’Italianissimo “Gatta Cenerentola“. Che sia computer grafica, che sia disegno a mano, che sia una sintesi di entrambi, l’animazione è una delle forme d’arte più duttili e immediate per traslare l’uomo e i suoi migliori racconti su uno schermo.
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