Leggi la recensione completa di The Last of Us, la serie tv HBO che ha portato sul piccolo schermo il videogioco di culto di Naughty Dog.
Oggi viviamo in una realtà in cui il Dio Capitale e il Dio Algoritmo hanno unito le forze con un unico obiettivo: accaparrarsi il nostro tempo. Ed è così che ci ritroviamo inondati da un numero imprecisato di serie tv che escono quasi quotidianamente, molte delle quali caratterizzate da bassi investimenti e qualità minima. È la streaming war, bellezza. Certo, ogni anno escono buonissimi prodotti. Alcuni anche ottimi. Ma quante di queste serie tv sono effettivamente opere in grado di rapire lo spettatore e restituirlo cambiato alla realtà? Quante sono in grado di influenzare veramente la nostra vita, emozionarci e cambiare la prospettiva con cui guardiamo le cose? Poche. Una di queste si è appena conclusa, ha una storia produttiva interessante ed è la protagonista della nostra recensione di oggi. Si chiama The Last of Us.
P.S. – L’articolo in questione doveva intitolarsi “The Last of Us, la recensione: cosa ho imparato sull’egoismo e sull’amore” ma oltre alle divinità sopracitate esiste anche il Dio SEO. Abbiamo molta paura di ChatGPT e di una prossima singolarità tecnologica. Forse dovremmo ammettere che siamo già schiavi di molte intelligenze artificiali.
The Last of Us: il videogioco game-changer
Per poter comprendere appieno la portata e la validità di un progetto occorre sempre fare un passetto indietro e guardare tutto il percorso che ha portato alla sua nascita. Per The Last of Us, ancora più che in altri casi, vale questo assioma. Si parte esattamente dieci anni fa. Siamo nello stesso periodo di cui abbiamo parlato nell’introduzione di questo articolo. Naughty Dog. La storica azienda del mondo videoludico viene dal terzo capitolo di Uncharted, la saga che ha rivoluzionato l’action-adventure e regalato al mondo Nathan Drake. Da qualche altro uno dei team di sviluppo di Naughty Dog, diretto da Neil Druckmann e Bruce Straley, è al lavoro su una nuova IP. Il progetto è ambientato in un mondo post-apocalittico in cui un fungo (cordyceps) ha infettato buona parte del mondo, le persone colpite diventano delle sorte di zombie.
In questo scenario Joel, un uomo indurito dalla vita, deve attraversare parte degli Stati Uniti scortando Ellie, una bambina immune. Le influenze sono varie ma la più importante è certamente La Strada di Cormac McCarthy, un’opera che influenzerà tutto l’immaginario contemporaneo e su cui bisognerebbe aprire un tema a parte. Il 14 giugno 2013, poco prima dell’uscita di PS4, The Last of Us arriva sugli scaffali di tutto il mondo. Chi c’era sa benissimo cosa ha rappresentato il gioco all’uscita. Recensioni entusiaste ovunque e sugli ancora giovani social non si parlava d’altro. Insomma, un vero game-changer per l’industria videoludica.
Dalla PlayStation alla Serie Tv
Di un possibile adattamento di The Last of Us si inizia a parlare quasi subito dopo l’uscita del gioco. D’altronde la trama e le raffinatissime sfumature narrative portate in scena da Druckmann e Straley sembrano perfette per una trasposizione. All’inizio ci prova Sony. L’idea è un lungometraggio e si vocifera di Sam Raimi come nome per la regia. Vengono fatte anche delle letture del copione insieme a parte del cast. Il progetto però naufraga. Druckmann non è convinto del lungometraggio come metodo di trasposizione. Troppo corto per adattare una storia di oltre 12 ore così ricca di piccoli dettagli e sfumature emotive. In più vorrebbe avere un ruolo creativo nel progetto.
Passano gli anni, arriva The Last of Us Parte II e il mondo dei videogiochi cambia di nuovo. Naughty Dog e Druckmann lo hanno rifatto e hanno alzato ancora una volta l’asticella. L’attenzione verso l’IP cresce di conseguenza e l’idea di una trasposizione torna in auge. A presentarsi questa volta sembra il partner perfetto per Druckmann. Si tratta di HBO, non una major qualunque. La garanzia per eccellenza per quanto riguarda le produzioni televisive, tanto che il claim con cui è nota è “It’s Not Television, It’s HBO”. A Druckmann viene proposto il ruolo da showrunner, ad affiancarlo un nome divenuto noto da poco ma che è già un autore riconosciuto del piccolo schermo grazie al suo lavoro in Chernobyl: Craig Mazin.
The Last of Us è il nuovo standard per un adattamento
La fredda cronaca di come siamo passati da un videogioco nel 2013 alla serie evento del 2023 l’abbiamo fatta. Iniziamo però a parlare di cosa rende davvero The Last of Us un prodotto televisivo così speciale. Per farlo non possiamo che partire dal fatto che si tratta di un adattamento. E non un tipo qualsiasi ma di un videogioco, ovvero del medium che più è stato maltrattato in fase di trasposizione. Il film di Super Mario, i tentativi con Resident Evil, l’Assassin’s Creed con protagonista Michael Fassbender, questi sono solo alcuni degli orribili esempi di adattamenti nati da IP videoludiche. Il motivo è semplice: la mancanza di rispetto e interesse nel fare un lavoro adeguato.
Si è sempre sfruttato una proprietà intellettuale con l’unico obiettivo di intercettare un po’ della fanbase del gioco e di portarlo al cinema. In The Last of Us le cose sono andate in modo diametralmente opposto, con HBO – già di per sé una garanzia di qualità – che ha deciso di mettere al centro di progetto l’autore dell’originale. Una pratica inconsueta a cui si aggiunge l’affiancamento di Mazin, quindi non di un produttore sui generis messo come garante degli interessi della major ma a sua volta un autore con una sensibilità e una visione propria, in grado di sposarsi con quella di Druckmann.
L’umiltà di Druckmann
Da queste premesse nasce un adattamento impeccabile a livello di struttura. Uno svolgimento narrativo perfettamente distribuito su tutti e 9 gli episodi e una gestione del ritmo perfetto nel suo essere incessante e sempre puntuale. Ma un’intransigente fedeltà al materiale originale non avrebbe reso la serie di The Last of Us una delle migliori trasposizioni mai fatte. È la capacità di adattarsi al nuovo linguaggio, sfruttandone le peculiarità, a rendere questa prima stagione così speciale. Soprattutto è l’umiltà con cui Neil Druckmann ha affrontato la propria opera con una nuova sensibilità, mutata in questi dieci anni dall’uscita del gioco. Una maturità che ha portato l’autore ad approfondire, modificare e a volte tradire il suo stesso lavoro passato, nel tentativo di rendere ancora più speciale e unica la storia di Joel ed Ellie. Così nascono piccoli nuovi dettagli utili al quadro principale, come per esempio il prologo sulle origini di Ellie nell’ultimo episodio (e che tocco di classe far interpretare la madre della bambina ad Ashley Johnson, la Ellie del videogioco). Ma soprattutto, grazie a questa nuova sensibilità, ci viene regalato il terzo episodio. Un capolavoro della storia del piccolo schermo e perfetto esempio di cosa significa adattare, ovvero ampliare e approfondire con il coraggio di tradire parte della storia ma non la sensibilità dell’opera.
Sull’egoismo e sull’amore
Potremmo rimanere qua a parlare delle caratteristiche tecniche di The Last of Us per ore. Sulla sua struttura e sulla gestione del ritmo ci siamo già pronunciati. Lo stesso vale anche per la scelta dei registi degli episodi, tutti con un background artistico di altissimo livello (e si vede). Oppure abbandonarci a sconfinati elogi sulle scelte di casting. Anche perché è innegabile che Pedro Pascal e soprattutto Bella Ramsey, su cui solo l’assenza di pensiero razionale poteva produrre dei commenti negativi di quel tipo prima dell’inizio della serie, ci hanno regalato due delle migliori interpretazioni degli ultimi anni. Ma se The Last of Us è una di quelle opere in gradi di influenzare e cambiare lo spettatore nel profondo (e lo è) lo si deve al suo coraggio sfacciato.
Quel tipo di audacia in grado di prenderci per mano e portarci in un viaggio caldo, avvolgente ma doloroso. Un vestito di spine, opportunamente cucito addosso alla nostra cultura e alle nostre emozioni più profonde. Perché The Last of Us è prima di tutto un affresco umanista sul peso delle scelte, sulle ragioni che ci sono dietro a ognuna di esse e sulle conseguenze che comportano. Un’opera capace di aprirci gli occhi e metterci davanti la più scomoda delle verità, ovvero che un grande atto d’amore può nascere dall’egoismo. Una volta finito The Last of Us non si può far altro che spegnere la tv, lasciarsi avvolgere dal silenzio, dalle domande e dalle emozioni che ancora camminano sulla nostra pelle. E questo lo fanno solo i capolavori.

Semplicemente appassionato ed affamato di tutto ciò che riguarda la cultura e l’arte popolare (nel senso letterale del termine): fumetti, libri, fotografia, tv e, ovviamente, cinema, che ne è il massimo esponente e la massima espressione.