Quello su Elvis Presley è IL biopic musicale: i brani sono protagonisti di una giostra visiva strabordante, che farà ballare e piangere
ELVIS: LA RECENSIONE
Anche se non si dovrebbe, in una recensione del genere è forse il caso di esordire con una bella dichiarazione personalistica da parte di chi scrive, a scanso di equivoci e perché si capiscano fin da subito le proporzioni dello stupore. Chi scrive, Baz Luhrmann, non ha mai potuto soffrirlo, da Romeo + Juliet a The Great Gatsby, passando per Moulin Rouge! Vuoi l’estetica glamour, vuoi il film musicato: questione di gusti. Eppure, un biopic come Elvis, presentato alla 75esima edizione del Festival di Cannes, è riuscito a far breccia in questo pregiudizio, rimanendo proprio quell’orgia visiva ed emotiva tipicamente alla Baz Luhrmann e proprio costituendosi come una narrazione principalmente musicale e solo in un secondo momento sull’uomo che fu il Re del Rock.
La sorpresa di Cannes 75

Austin Butler è Elvis
I primi venti minuti di Elvis, non per forza i più apprezzati qui a Cannes 75, sono anche i più rappresentativi della forza ideologica dell’opera di Baz Luhrmann, che ha quasi a che fare con il peso specifico dei biopic in generale e di questo in particolare. Letteralmente un’orgia accecante e stordente di immagini, musica, inquadrature, montaggio e persino effetti speciali. Un’esplosione cardiopatica che farà da trailer a tutto l’arco del Re del Rock, creando un’unica parabola vitalistica e distruttiva sul percorso, più musicale che personale, di questo Elvis Presley.
Sembra un film davvero complesso! A spiegalo, neanche a provarci: è come salire a bordo di un rollercoaster voltabudella e poi doverne rendere conto a chi, rimasto a terra, ci chiede che cosa si prova. Innanzitutto è un film di incredibile complessità anche solo a livello registico, in senso quasi economico, di budget, che infatti è sempre stato tallone d’achille per Baz Luhrmann, sempre lungo sui costi e sempre a un passo dal fallimento dei progetti.
Ogni secondo di quei venti minuti si trasforma in un montaggio serratissimo – scroscio di applausi a Matt Villa e Jonathan Redmond, per una volta è proprio il caso di fare i nomi – che cambia scenari, comparse, costumi, ambientazioni e annate in continuazione. Il concitare di una vita che era tanto fitto, non scherziamo, da averci fatto girare in direzione del pubblico restante, per zittire qualcuno, convinti che il vociare venisse dalla sala. Per non parlare dello split screen, a cui non bastano due schermi ma si deve moltiplicare in tre, quattro, infine in un collage di esibizioni che non si contano più.
Un biopic a scomposizione infinitesimale

Una scena di Elvis
La forza di Elvis è quindi innanzitutto contraria alla critica che si rivolge alla gran parte dei biopic: di essere limitati per natura, semplicemente incapaci di rendere o anche solo dare la parvenza di riassumere la complessità di tutta una vita. Il film di Baz Luhrmann, che ci riesca o meno, riesce almeno a dare quest’impressione. Sembra di assistere a una scomposizione infinitesimale di minutaggio. Ogni secondo di quelle due ore e mezza viene suddiviso in millesimi e riempito di ogni suggestione possibile; senza per questo dare nausea; vertigine certo che sì.
Condensare insomma, in due ore, gli infiniti secondi che compongono una vita. E quella di Elvis, per quanto tristemente breve, aveva bisogno di brillare su schermo, anche e soprattutto per le nuove generazioni, a suon di insegne a incandescenza e di strati pesanti di cerone e brillantina. Lo dice uno, sempre chi scrive, che anche il periodo di Presley a Las Vegas, dagli eccessi di latex, non ha mai potuto soffrirlo (salvo poi riconsiderarlo alla luce di questo film). Quella di Elvis, per quanto immortale, è una figura spesso ridimensionata: non solo un ragazzo dal bel ciuffo e dalla voce profonda, con un bacino fin troppo licenzioso e tremolante e le canzoni pur epocali che però, sì insomma, direbbe un millennial, sono sempre canzonette Anni ’50, di quelle sui cuori spezzati e le notti infuocate.
Baz Luhrmann invece la ripercorre in toto, le da spessore politico prima che attenzione morbosa alla decadenza fisica degli ultimi anni a Graceland e Las Vegas, ma sempre tenendo a mente la musica come priorità rispetto alle tragicità della vita. Al massimo, rendendole sempre e comunque funzionali al carattere che avrebbe poi espresso sul palco. Quello di una rockstar al pari dei successivi Anni ’60, in cui pure continuò a regalare capolavori: disordinato, anarchico, ma soprattutto politicizzato e fautore di rotture dei tabù.
Chi, il vero Elvis?

Tom Hanks è il Colonnello Parker
In questo, sia nei brani che nelle ambientazioni, una giusta e fondamentale parte, il film se la prende nel decostruire l’accusa più volte rivolta a Elvis: del bianco divenuto il Re del Rock a spese dei neri, che ci avevano pensato prima. Nel mostrare il legame con il R&B e il Blues di B.B. King e con il remake Tutti Frutti che fu prima di Little Richard, sullo sfondo di una Memphis che sente come unica casa, prima che il tappeto venga macchiato con il sangue di Martin Luther King. A fianco di questo c’è il rapporto con quella che, negli ultimi mesi di vita – volutamente sorvolati da Luhrmann, scelta encomiabile – diverrà la casa degli orrori: gli eccessi di Graceland, buco nero di risorse e di vite, su tutte quella della madre di Elvis, il cui alcolismo sarà (tristemente) determinante.
Il tutto raccontato – non ce ne potremmo scordare mai – da un inedito Tom Hanks nei panni del Colonnello Parker, che si presta a una delle scelte più “terribili” e al contempo inusuali della narrativa: che colui che ha creato e distrutto Elvis, il suo manager e antagonista nella sua storia, ne faccia anche da narratore. Ma il finale è tutto per lui, per questo quanto mai somigliante Austin Butler, attore freschissimo che a parte con quel breve ruolo in C’era una volta… a Hollywood di Quentin Tarantino non aveva mai avuto l’opportunità di dimostrare tutta la sua bravura. Sceltosi un ruolo difficilissimo che avrebbe potuto costituire un sicuro funerale, non l’ha sprecata affatto. Ma la somiglianza fisica è il meno. Sua la voce prestata a tutti i pezzi giovanili; sua mista all’originale in quelli successivi; ma soprattutto fa un lavoro sul tono e sull’espressione che sì, all’inizio sembra un po’ troppo scimmiottare, un po’ troppo sull’esagerato. Ma in fondo, esattamente così era lui.
Tanto che, due ore e mezza dopo, quando li vediamo infine – l’interprete e l’originale – alternarsi fra ricostruzione e materiale d’archivio, la differenza fra i due è ormai quasi indistinguibile. E lì le lacrime sono volate giù, a singhiozzi, anche diversi minuti dopo l’uscita dalla sala. Cos’altro dire per convincervi, se non che non vogliamo dire proprio nient’altro. Perché, sarà il glamour ad averci fatto cadere nel facile tranello di Luhrmann, dirà qualcuno, ma Elvis è uno di quei film per cui si vuole chiudere la recensione in anticipo, per permettere a chi la sta leggendo di congedarsi e correre al cinema quanto prima. Cioè dal 22 giugno. In sala, quel giorno, ci tornerà anche uno che Baz Luhrmann, non aveva mai potuto soffrirlo.
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Caporedattore di CiakClub. Da sempre appassionato di pop culture, di letteratura fantascientifica e distopica, di quanto la buona vecchia America ci ha regalato in fatto di musica fra gli Anni ’50 e ’70 e soprattutto di cinema in ogni sua forma, senza barriere né confini, con specifica attenzione al panorama anglosassone.